La settimana scorsa è stata approvata la riforma costituzionale che prevede la riduzione del numero di parlamentari: la Camera passa da 630 a 400 deputati, mentre al Senato il numero di rappresentanti si riduce da 315 a 200.
Essendo una riforma costituzionale, è necessario che la legge venga approvata quattro volte: due alla Camera e due al Senato. Le prime tre volte la maggioranza è stata ottenuta grazie a Movimento 5 Stelle e Lega, mentre l’ultima votazione ha visto il sostegno del Partito Democratico. Il quale, nonostante avesse precedentemente votato contro, ha ora qualificato l’inversione di rotta in un pacchetto di riforme costituzionali previste dalla nuova alleanza con il M5S.
Il dibattito non è nuovo, né fuori che dentro il parlamento: varie proposte di riforma si sono succedute negli anni (a pagina 25 di questo documento di studio del Senato si può trovare un breve riassunto).
Manca però una critica seria alla motivazione di fondo. Le ragioni a sostegno della riforma sono, riassumendo:
- riduzione dei costi della politica
- maggiore efficienza del parlamento (come si valuta l’efficienza?)
- allinearsi al numero “ottimale” di parlamentari
Uno alla volta, dando peso alle parole, grazie all’aiuto di Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna.

Tutte le volte che entro nello scantinato dove si trova il mio ufficio ora, mi viene in mente Ercole sdraiato giù dalle scale e i 5 anni passati qui dentro.
1) Riduzione dei costi della politica
Il primo problema è l’uso improprio della parola “politica”. L’obiettivo, in senso lato, sembrerebbe quello di ridurre quanti soldi servono per il funzionamento generale del Parlamento. Il ragionamento, se fatto bene, non è da condannare a priori: uno (tra i tanti) indicatori di qualità delle istituzioni è il rapporto tra i servizi erogati e il costo del funzionamento amministrativo.
Ridurre il numero di parlamentari non ha nessun nesso di causa sulla riduzione dei costi: l’unica conseguenza causale è quella di ridurre la rappresentatività.
Per esempio: fra 10 anni la maggioranza in carica decide di aumentare gli stipendi ai dipendenti del Parlamento (funzionari etc). Ipotizziamo che aumentino esattamente di quanto venga risparmiato con questa riforma (attualizzata e corretta per l’inflazione, per i più pignoli). Avremmo quindi gli stessi costi, e una rappresentanza minore.
Ad ulteriore esempio, la Camera del Regno Unito costa molto meno di quella Italiana, a parità di numero, mentre quella USA costa di più, nonostante il numero di representatives sia di 435. Chiaramente, paragoni di questo tipo hanno un respiro corto: bisogna controllare che le voci di spesa siano le stesse (non è detto!) e, soprattutto, non ha senso paragonare una parte del sistema politico indipendentemente dalle altre. Bisogna considerare la rappresentanza nel suo complesso: il sistema bicamerale paritario italiano, il federalismo USA, l’assenza dell’elezione del sindaco in quasi tutte le città nello UK.
Diffidate quindi di chi usa paragoni internazionali, intrinsecamente complessi, in modo semplicistico: lo fa solitamente dando una visione parziale a proprio favore.
Riassumendo, se si vuole ridurre il costo del funzionamento della rappresentanza, ridurre la rappresentanza non porta necessariamente ad una riduzione dei costi.
Quindi l’operazione fatta fino a questo momento non è “riduzione dei costi della politica” ma “riduzione della rappresentanza”.
La tesi secondo la quale “bisogna cominciare da qualche parte, e meno parlamentari mi sta bene”, porta in estremo a questo: il numero di parlamentari che consente di risparmiare di più è zero.
Si dimentica che qui c’è in ballo quello che gli inglesi chiamano tradeoff: non si possono ridurre i parlamentari lasciando la rappresentanza intatta.
I costi centrano quindi poco o nulla: la spiegazione è tutta partitica.
Il PD ha votato a favore in quanto “vincolato” da un accordo di governo, Lega e centrodestra hanno votato a favore in quanto, a parità di legge elettorale, un minor numero di parlamentari ha un effetto maggioritario.
Per esempio: immaginate di avere un sistema puramente proporzionale, ma di eleggere solamente 1 deputato. Chi prende più voti (relativi!) vince, come nel first-past-the-post, il maggioritario uninominale inglese.
È interessante capire quali siano invece gli incentivi del Movimento 5 Stelle, che potrebbe usare l’antiparlamentarismo, nella speranza di indirizzare la democrazia da rappresentativa a “diretta”.
Il prof. Pasquino risponde in questo modo al mio dubbio:
Comunque la si valuti, la riduzione del numero dei parlamentari è una vittoria “storica” del MoVimento 5 Stelle, ma non avanza di un dito il cammino verso la (impraticabile) democrazia diretta, a meno che l’antiparlamentarismo (non l’antipolitica), erodendo la democrazia rappresentativa, provochi poderose e pressanti richieste da parte dei cittadini di votare direttamente su tutti i provvedimenti governativi o anche soltanto sui più importanti. A seconda dei punti di vista, questo esito è un sogno o un incubo.
2) Maggiore Efficienza
Il problema è sempre lo stesso: cosa diavolo vuol dire “efficienza”?
Se maggiore efficienza vuol dire minori costi, ho già risposto. Più leggi approvate? Meno leggi, ma migliori? Migliori per chi, per quale obiettivo? Che casino.
Le parole generiche sono risposte non giustificate a domande malposte o volutamente malformulate.
Facciamo un passo indietro. A cosa serve il Parlamento?
- Rappresentare (art 67 Costituzione)
- Legiferare (art.70 Cost.)
- Monitorare le azioni di governo, secondo un rapporto fiduciario (art. 94 Cost.)
Ho già detto che la riduzione dei parlamentari, a parità di altri fattori, riduce la rappresentanza. In aggiunta, trovo molto interessante quello scitto su Openpolis sulla necessità di cambiare i regolamenti parlamentari (anche se non mi trovo completamente d’accordo sul ragionamento sulle Commissioni).
Reppresentanza a parte, forse la riduzione dei parlamentari aumenta l’efficienza del processo di legislazione.
In questo caso, una possibile definizione di efficienza è la seguente: “l’equilibrio ottimale tra una preparazione accurata e la velocità del processo“. Più una legge è ben disegnata e meglio è, ma non se ci vuole troppo tempo a scriverla ed approvarla. Allo stesso modo, più una legge risponde prontamente alle esigenze del paese meglio è, ma non a scapito della qualità della proposta.
Avere meno parlamentari aumenta l’efficienza? Difficile da sostenere, senza che qualcuno dica che si tratta piuttosto di qualità della classe politica e delle preferenze elettorali dei cittadini.
Inoltre, immaginate di essere un consulente energetico, eletto in parlamento. Il vostro contributo sarà principalmente sulle tematiche dove si tratta di economia ambientale. Invece su altri temi, come la giustizia, vi fidate del lavoro dei colleghi del vostro gruppo in Commissione, per poi discuterne e votare infine in Aula (compatti), e viceversa. Meno persone per gruppi, più alta la probabilità che nelle Commissioni ci siano parlamentari che non hanno le competenze sui temi specifici. A sicuro danno della qualità della legislazione. Alternativamente, il numero di Commissioni o dei membri delle tali viene ridotto, con effetti diversi ma sempre nella stessa direzione.
Obiezione! Qualcuno potrebbe dire: “Meno parlamentari implica gruppi parlamentari più piccoli [vero]. Ed è positivo: in gruppi più piccoli è più facile capire chi fa cosa, chi ha votato come. Quindi più pressione sui parlamentari per votare compatti”.
Ha senso questo ragionamento? Lo chiedo al prof. Pasquino:
Si teme che la riduzione del numero dei parlamentari, e quindi anche dei gruppi parlamentari, renda più facile il controllo di questi ultimi da parte delle segreterie di partito. Non può essere questa vista come un aspetto positivo, in ottica di rendere i parlamentari più “fedeli alla linea”, e quindi più direttamente responsabili nella loro appartenenza al partito? Provocatoriamente, un gruppo molto eterogeneo permette ai partiti di avere più posizioni su un certo tema e quindi essere meno “accountable”.
Non sono a conoscenza di modalità con le quali si giunga ad una “accountability di gruppo”. Certo, i partiti dovrebbero rispondere del divario fra le loro promesse e le loro prestazioni, performance. Ma la accountability è il processo che collega l’eletto ai suoi elettori ai quali spiegherà quel che ha fatto, non fatto, fatto male, per ottenere la rielezione. Naturalmente, è imperativo che funzioni un sistema elettorale che consenta una effettiva relazione fra eletti e elettori. Quando i capi partito nominano i loro parlamentari, li paracadutano in collegi e in posizioni sicure, safe, operano per farli eleggere, ovviamente da quei parlamentari esigeranno obbedienza assoluta, cieca e muta, ma questa non è rappresentanza politica. Si chiama servilismo nutrito da ambizioni personali. Un gruppo parlamentare eterogeneo entro certi limiti darà sicuramente migliore rappresentanza agli elettori. Un leader capace, non autoritario e competente, “costruirà” la linea politica con l’apporto di tutti o quasi i suoi parlamentari e potrà esigerne il rispetto e l’attuazione. Il resto è deplorevole confusione.
Il prof. Pasquino aggiunge, scettico sul combinato disposto di questa riforma e della prossima legge elettorale:
Invece, molti guasti si vedranno subito dopo l’approvazione della prossima legge elettorale che si preannuncia ispirata ai soli criteri di difesa dei partiti esistenti, dei dirigenti e dei loro candidati, da nominare e da paracadutare, senza nessun requisito di qualità e nessuna propensione a dare potere agli elettori. Peraltro, tutto déjà vu, déjà fait.
La critica, che condivido, è verso l’unione di liste bloccate e la possibilità di candidature multiple, che ha permesso a tutti i partiti di forzare candidati nei collegi uninominale. Anche se non eletti, gli stessi erano capilista nelle ripartizioni proporzionali. A volte, sia nell’uninominale che nel proporzionale, in barba alla rappresentanza territoriale.

Aggiungo: la riduzione del numero dei seggi aumenta quindi il potere dei segretari a livello nazionale. Ma non solo: ci saranno circa 300 parlamentari ora sicuramente esclusi dalla corsa parlamentare, e che quindi potrebbero ora ripiegare su obiettivi a livello regionale, provinciale o comunale. L’aumento della competizione al vertice può avere delle ricadute fino alla base, non è detto se a beneficio della qualità della proposta per i cittadini o a beneficio del potere delle segreterie locali, che possono paracadutare nomi illustri a svantaggio di una rappresentanza territoriale.
Terzo e ultimo punto, il Parlamento monitora l’azione del Governo. Difficile capire come misurare questa attività. Esiste tuttavia un indicatore della “forza” del Parlamento, ossia la percentuali di leggi su iniziativa del Parlamento, rispetto ai decreti-legge, ossia su proposta del Governo.
Possono esserci degli effetti, positivi o negativi, tra l’attuale riforma e il ruolo marginale che il parlamento sembra essersi autoimposto? Sempre con l’aiuto di Gianfranco Pasquino.
Può qualificare il nesso tra “riduzione del numero” all’utilizzo dei decreti-legge di cui parla nel suo intervento?
Non c’è nesso. Semplicemente, sostengo che, se non cambia il modo di legiferare, ridurre il numero dei parlamentari non avrà nessun impatto sui procedimenti legislativi. I governi procederanno a schiacciare i parlamentari sopravvissuti nella micidiale tenaglia “decreti legge+fiducia”. I parlamentari di maggioranza si piegheranno e il Parlamento, ancorché ridimensionato, non riacquisterà né potere né prestigio.
Il problema non è recente, ed è trasversale:

3) Numero Ottimale
L’argomento è tecnico, ma non deve spaventare, soprattutto non deve impaurire il numero di moderati pragmatici che lotta per l’abolizione del suffragio in quanto “loro ne capiscono e il resto è un gregge, ed il mondo è complesso”. E quindi usano la parola “ottimale” per giustificare le loro prese di posizioni medio-progressiste. Senza sapere in realtà cosa vuol dire: diciamolo, di pancia, come tutti. Il mio giudizio a riguardo è duro, me ne assumo la responsabilità.
Tornando al punto: qual è il procedimento che porta all’ottimalità?
- Si vuole trovare l’ottimo, cioè si vuole il massimo risultato possibile.
In un paragone cestistico, un tiro ottimo è quello associato alla probabilità più alta possibile di fare canestro.

- Quindi, la prima cosa da decidere è cosa si vuole ottimizzare (massimizzare o minimizzare). L’obiettivo.
- Secondo, bisogna capire qual è lo strumento attraverso il quale si ottimizza. Tornando all’esempio, si vuole ottimizzare il tiro modificando (per ora) solo il rilascio della palla
- Si sceglie quindi come “spezzare il polso” nel modo migliore.
Fonte: GIPHY
Ripetiamolo insieme: migliore per cosa? Migliore per massimizzare le probabilità di canestro. È sempre un migliore per qualcosa. Se l’obiettivo è fare un buon passaggio, la stessa mossa non funziona.
Tutto questo sembra incredibilmente banale (anche se ho volutamente omesso la parte matematica che porta a trovare il massimo di una funzione), ma dimenticato.
Nel dibattito è stato infatti citato un articolo scientifico di Taagepera (1972), secondo il quale il numero ottimale dei parlamentari è la radice cuba della popolazione votante. Applicando alla lettera la regola, la Camera dei Deputati dovrebbe essere composta da circa 360 parlamentari. Qual è il problema?
Il problema risiede nel fatto che nell’articolo Taagepera dice esplicitamente che l’obiettivo è quello di minimizzare il numero totale di canali di comunicazione. Quindi, il suo argomento è valido nella misura in cui si voglia lo stesso obiettivo.
Vogliamo minimizzare il canali di comunicazione?
Personalmento credo che l’obiettivo per il parlamento credo sia – dato quello che ho scritto finora – la costituzione di un organo rappresentativo, con capacità di legiferare in modo accurato, trasparente e con velocità decisionale adeguata al tema, oltre ad essere in grado di monitorare l’attività del governo.
Cosa che richiede un’ottimizzazione così complessa da rendere un approccio puramente quantitativo quasi impossibile da giustificare. Sulla stessa linea, altri lavori scientifici, per esempio in campo economico, non riescono ad includere nel modello il fatto che la rappresentanza è una questione di sistema generale (comuni, province, regioni, parlamento), e trattarne una parte isolatamente dalle altre produce risultati dalla dubbia validità di policy. Tanto meno includere misure di efficienza, di accountability o di monitoraggio.
Può sorgere una domanda: perché questi lavori scientifici hanno queste ipotesi? Sono inutili? No, gli articoli dicono chiaramente le ipotesi. L’idea è: se il tuo obiettivo è questo, ecco il risultato.
Il problema è quando politici o giornalisti, per pigrizia o malizia, utilizzano i risultati di queste ricerche “dimenticando” di menzionare l’obiettivo orginale e sostituendolo con il proprio.
Tocca anche a noi essere lettori più attenti: articoli come questo vanno letti fino in fondo, e giungono, con parole diverse, alle stesse conclusioni di Pasquino:
Auriel e Gary-Bobo (2012) sostengono che l’Italia e la Francia siano sovra rappresentate, mentre gli USA siano sottorappresentati. Ha senso in questo caso giustificare la scelta secondo l’idea di allinearsi con la media europea, o invece tale ragionamento è privo di fondamento?
Non condivido né la prima né la seconda affermazione. La rappresentanza politica non è mai esclusivamente un problema di numeri, ma di sistema elettorale, di scelta delle candidature, di libertà degli eletti, di loro accountability. Aggiungo che gli USA sono un sistema federale con significative modalità di rappresentanza politica in ciascuno dei 50 Stati. Chi dimentica questo va incontro a errori clamorosi.
Riassumendo: dimmi qual è l’obiettivo (massimizzare i canestri) e ti dirò se stai scegliendo lo strumento giusto per raggiungerlo (spezzare il polso), se è l’unico fattore (no), e come migliorarlo (se lo sapessi, non tirerei così male).
Se l’obiettivo è quello di ridurre i costi, ridurre i parlamentari non è lo strumento giusto.
Se invece la riduzione dei parlamentari è l’obiettivo in sè, come sembra esserlo per i 5stelle e per qualche amante della riduzione della varianza, non posso che ricordare che una riforma costituzionale che non tenga conto degli effetti collaterali su tutto il sistema né dell’eterogeneità propria di ogni sistema, pecca di miopia.
Una volta era tutta politica, ma anche ora
Concludendo, è interessante capire quali possano essere le implicazioni politiche future di questa mossa per i due maggiori azionisti del governo attuale, Movimento 5 Stelle e Partito Democratico.
Servirà questa mossa per far risalire i 5 stelle dal calo dell’ultimo anno oppure corrono il rischio che questa strategia si ritorca loro contro? Nel secondo caso, a favore dell’astensionismo o di quale partito?
I voti del MoVimento non salgono né scendono come conseguenza della riduzione dei parlamentari. Varieranno con riferimento a quanto il governo Conte 2 riuscirà a fare e alla capacità dell’opposizione di centro-destra di presentarsi come alternativa praticabile e migliore. Gli astensionisti, gruppo ampio e ampiamente eterogeneo con motivazioni diversissime, non fa(ra)nno nessuna differenza.
Il Partito Democratico ha cambiato la sua posizione precedente, giustificandola come parte delle mediazioni che hanno portato alla formazione del governo, soprattutto in ottica di un più ampio pacchetto di riforme Costituzionali. Quali sono le riforme che andrebbero a mitigare la riduzione di rappresentanza ed il messaggio populista anticasta che sembra emergere da questo intervento preso isolatamente?
“Palazzo Chigi val bene la riduzione dei parlamentari”. Il Partito Democratico ha agito in base a questa valutazione. Nessuno di loro sa quale pacchetto di riforme più o meno costituzionali servirebbero al sistema politico. Un po’ tutti ragionano con riferimento alla loro carriera in politica e nel Parlamento. Contribuiranno ad una pessima legge elettorale purché garantisca loro di salvare il seggio e renda (più) difficile al centro-destra di sopravanzarli e vincere. E’ un gioco che conosciamo e che, personalmente, capisco, ma non apprezzo affatto. Del resto, per esempio, il voto di sfiducia costruttivo, è inutile parlare. Quando poteva, il suo due volte ex-segretario non l’ha neppure preso in considerazione. La mia personale (ma scientifica e comparata) ricetta si chiama semipresidenzialismo alla francese con legge elettorale a doppio turno in collegi uninominali e soglia da stabilire, negoziando.
Dixi et salvavi animam meam. La storia non finisce qui.
Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna
[Foto copertina: http://www.centrostudieuropei.it/jeanmonnet/?cat=5%5D
Un pensiero su “Riduzione del numero dei parlamentari: l’analisi con Gianfranco Pasquino”