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Una giornata con Paul Polman, il CEO che ha lasciato Unilever per salvare il Mondo

«Stiamo per commettere il più grande crimine nella storia dell’umanità, e ne faranno le spese molte generazioni. Dobbiamo unire gli sforzi di aziende e multinazionali e dare ai governi idee pratiche per raggiungere la sostenibilità ambientale», ha affermato appena un mese fa al “The Guardian” Paul Polman, amministratore delegato di Unilever dal 2009 all’inizio di quest’anno, quando ha deciso di dimettersi e di occuparsi a tempo pieno di combattere i mali del nostro tempo, su tutti il riscaldamento globale e il cambiamento climatico che ne deriva.

Dopo aver guidato la nota multinazionale verso risultati notevoli sia sul fronte della crescita finanziaria che della sostenibilità, il 63enne olandese punta a creare un team di «CEO eroici», che siano disposti a guidare la trasformazione del nostro stile di produzione e di consumo e a correre perfino rischi personali, pur di perseguire un fine più alto, come quello di “salvare il Pianeta”. A suo dire, infatti, i nostri sforzi individuali per ridurre gli sprechi, da soli, non bastano più: le soluzioni sono a portata di mano, ma soltanto se i “grandi” si mobilitano, siano essi manager o capi di Stato.

Noi di The Bottom Up abbiamo avuto l’opportunità di incontrare Polman – fresco fondatore della startup di consulenza “Imagine” – al suo rientro dal recente G7 di Biarritz, in occasione di una Masterclass sul rapporto tra leadership e regola aurea (“Tratta il prossimo tuo come te stesso”) di cui è stato il relatore principale, presso la Franklin University Switzerland di Lugano, ateneo svizzero che, tra i primi al Mondo, ha da poco dato vita a un corso di studi in “Responsible Management and Climate Change”.

Cosa serve per risolvere la crisi ambientale?

Durante l’incontro, che lo ha visto prendere la parola insieme ad accademici, industriali “illuminati”, la moglie Kim (recentemente co-autrice di un libro con Mohammad Yunus e Al Gore, tra gli altri) e rappresentanti di UNITAR e Global Compact dell’ONU, l’ex CEO di Unilever è parso ottimista rispetto alla futura risoluzione dei problemi dell’ambiente. Dopo aver incassato, infatti, in Francia, la disponibilità a una collaborazione operativa da parte di Trudeau e Macron, Polman vede «molte possibilità percorribili a portata di mano, perché basterebbe investire il 5,5% del PIL mondiale di un anno per risolvere la questione ambientale». Tuttavia questo dovrebbero essere frutto di scelte collettive, di un cambiamento di sistema, di una vera e propria evoluzione del capitalismo, adesso afflitto, così come la politica, secondo lui, da una profonda «crisi morale».

Il manager che gestiva 400 marchi internazionali generando 50 miliardi di euro annui, ma che al New York Times ha adesso rivelato il sogno giovanile di divenire sacerdote («il seminario dovette poi chiudere, a causa delle poche iscrizioni»), ha indicato, in Canton Ticino, direzioni concrete da seguire, o strade già imboccate. Mira a riunire, ad esempio, per ogni comparto, le aziende che rappresentano almeno un quarto della cifra d’affari mondiale, e a studiare con loro nuove opportunità di business legate alla trasformazione sostenibile dei loro processi – in particolare alla decarbonizzazione dell’energia utilizzata – che fungano da leve rispetto la buona causa verso coloro che possono essere convinti solamente attraverso la prospettiva a breve-medio termine di un profitto.

In questo modo, settore per settore, secondo Polman, si potrebbe creare una “reazione a catena” capace di contagiare anche le aziende outsider. L’esempio più urgente, a suo dire, è legato al fashion business, che produce il 46% della plastica presente negli oceani, proveniente dal lavaggio della microfibra, ma l’olandese non salva neanche l’industria alimentare che lo ha visto impegnato lungo tutta la carriera, colpevole quest’ultima di produrre il 23% delle emissioni totali di CO2 su scala planetaria.

«Quando, però, davanti alle statistiche, mi rendo conto che basterebbe tassare (e solo dello 0,5%) l’1% piú ricco del pianeta per pagare gli studi a tutti i bambini del globo, e che non serve sviluppare nuove tecnologie per dare un alloggio a migranti e senzatetto – ha aggiunto, riferendosi a politici e capi d’impresa -, mi chiedo: “Possono davvero impegnarsi? Vogliamo davvero farcela?”. Molto di ciò che miro a ottenere nel breve è una risposta chiara, anche fosse negativa. Perché elettori e consumatori rispettivamente devono saperlo. Cosa fare con loro, a quel punto? Ignorarli, perché non bisogna distrarsi dall’obiettivo e perdere altro tempo prezioso, e portare giovani ben informati e compatti alle urne, per smuovere chi può far qualcosa attraverso i numeri e il sistema della rappresentanza».

Come già anticipato, a quella di Paul Polman hanno fatto da contraltare testimonianze concrete di assoluto riguardo, sul tema della sostenibilità, come quella di Okendo Lewis-Gayle che, con la sua Harambe, ha stimolato giovani imprenditori africani a sviluppare progetti (vedasi la distribuzione internazionale della moringa, “superfood” proteico contro la fame che in Ghana, ad esempio, può essere coltivato senz’acqua) poi promossi da Harvard, dalla Obama Foundation e finanziati, tra gli altri, da fondi che coinvolgono Jack Ma e Zuckerberg.

Degno di particolare nota anche l’intervento di Gilbert Ghostine, CEO di Firmenich, azienda svizzera leader nella produzione di oli essenziali e forniture per la produzione di profumi e cosmetici, unica “tripla A” certificata da CDP insieme a L’Oreal, e in prima linea per l’innovazione a scopo sociale, al fianco della Bill & Melinda Gates Foundation.

Al termine dell’incontro, il sentimento è ambivalente: un misto di speranza, suscitata dalla dimostrazione dell’impegno di personaggi legati al “mondo dei fatti” – e non solo alle parole, come talora pare accadere con dignitari e diplomatici -, e confusione, legata alla complessità e alla grandezza delle azioni da intraprendere per disinnescare la catastrofe. Sappiamo per certo, infatti, che l’uomo non aderisce alle leggi dell’economia perché animale razionale, quanto piuttosto perché quasi sempre mosso dall’interesse personale e dalla sua massimizzazione in tempi ragionevolmente brevi e tramite azioni ragionevolmente semplici. Quasi sempre, prescindendo dalla razionalità stessa.

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