Quando Daouda è arrivato a Barcellona aveva solo 22 anni. Era il 2006. La sua è la storia dimenticata di molti ragazzi e ragazze senegalesi spinti a lasciare il proprio paese in cerca di un futuro migliore. Ammaliati e sedotti dal canto delle sirenecome Omero e i suoi marinai hanno, invece, scoperto di dover fare i conti con la Fortezza Europa e con il suo sovranismo dilagante. “Con mio fratello, da piccoli, vedevamo molti film francesi e le partite di calcio del campionato italiano. Dalle immagini che trasmettevano ci sembrava di capire che la gente era molto ricca. Macchine di lusso, ville con piscina”. Un giorno andrò a vivere là, gli diceva, e così ha fatto.

Partono dai piccoli villaggi sulla costa senegalese con i cayuco, tradizionali barche da pesca di legno prese in prestito dai pescatori del posto. Se il mare è buono e non ci sono imprevisti durante la navigazione, in cinque, sei giorni al massimo, si può arrivare alle Isole Canarie. A Tenerife nel caso di Daouda. Una volta trovata la barca, si compra un motore e si iniziano a raccogliere le quote. Il viaggio costa circa 450.000 franchi senegalesi, 686 euro più o meno. Il capitano della barca non paga e ha il diritto di portare a bordo, gratis, altre quattro persone. Ad attenderli, una volta arrivati sul territorio spagnolo, un Centro di Internamento per Emigranti dove trascorreranno i primi 60 giorni. Oltre agli operatori della Croce Rossa che cercano di aiutarli come possono.
Fino al 2006 i migranti che partivano dal Senegal e volevano raggiungere la Spagna poteva passare per l’arcipelago canario, appunto. Da lì, chi chiedeva di potersi ricongiungere alla propria famiglia veniva accompagnato fino al porto di Malaga o di altre località della costa andalusa. L’OIM ha sempre considerato questa rotta come una delle più sicure ed economiche per i migranti subsahariani. Un accordo tra Spagna e Senegal, però, nel 2006 l’ha praticamente chiusa, obbligando i migranti a passare per l’inferno libico.

“Alcuni per arrivare fino in Spagna hanno imparato a raccontare di avere dei parenti ad attenderli. La Croce Rossa, quando può, cerca di accontentarli e gli paga il biglietto del treno o dell’autobus. Vogliono arrivare fino a Barcellona, Madrid o Bilbao perché sanno che sono le città più ricche”. Cesar Zuñiga è il Presidente de El Espacio del Inmigrante. Un’associazione nata dalla necessità di offrire ai migranti che arrivano a Barcellona assistenza socio-sanitaria. Con il tempo, però, lo Spazio del Migrante è diventato un punto di riferimento. Un luogo di accoglienza e accompagnamento legale, sociale ed economico. Si incontrano tutti i martedì alle otto di sera e le riunioni sono pubbliche.
Anche quella di Daouda è una famiglia di pescatori. Appartiene a quei 600.000 senegalesi che vivono di pesca. Prima che arrivassero i grandi pescherecci stranieri di pesce ce n’era abbastanza da venderlo anche al mercato. Adesso, invece, i pescatori trascorrono anche 10 giorni consecutivi in mare nella speranza di pescarne a sufficienza per sfamare le proprie famiglie. “Se consideri che con la metà del tempo si può arrivare praticamente in Europa capisci perché decidiamo di partire”.

In Senegal, Daouda lavorava per una piccola impresa edile. Ha smesso di andare a scuola presto per aiutare la sua famiglia e ha iniziato a fare il muratore. Ha continuato a farlo anche dopo, quando è arrivato a Barcellona. Fino a che la crisi del settore immobiliare non lo ha messo in mezzo alla strada. Quella strada che per un anno e mezzo è diventata la sua seconda casa. La prima, invece, per la maggior parte di loro è un piccolo appartamento, di non più di 50 metri quadrati, da condividere con un’altra decina di ragazzi senegalesi. Senza un lavoro e con una famiglia da mantenere in Senegal, Daouda ha deciso di mettersi a fare il venditore ambulate. Il mantero, come li chiamano da queste parti. Sono i ragazzi che si vedono per le strade delle Capitali di mezza Europa carichi come muli. Sempre pronti a chiudere tutto dentro alla manta bianca e scappare se arriva la polizia.
A Barcellona sono circa 300 e molto spesso mi spiega Cesar, sono proprio loro il primo contatto che gli ultimi arrivati hanno con la nuova realtà. “Li fanno dormire in casa, gli spiegano come funziona il business e li accompagnano a comprare la merce”. Addirittura, mi dice, quando la Guardia Urbana li ferma e gliela sequestra sono sempre loro a prestargli i soldi per ricomprarla. Girano molti rumors sui manteros di Barcellona. Tutti infondati, ci tiene subito a precisare. “Non c’è nessuna mafia dietro, se così fosse la Polizia lo avrebbe già scoperto. Anzi, al contrario, la stessa Polizia fa di tutto per mettere a tacere queste voci”. Basta farsi un giro al porto di Badalona o alla fermata della metro di Sant Roc, il sabato o la domenica, per capire come stanno davvero le cose. Comprano la merce direttamente da grandi magazzini gestiti dai cinesi, sparsi per tutta l’area portuale, per rivenderla sulla Rambla o a La Barcelonate.
Questi ragazzi sono l’ultimo anello della catena sociale. Vivono sotto la soglia di povertà. Arrivano a guadagnare al massimo 15/20 euro al giorno. Molti di loro per giorni non vendono niente. Ogni 5 minuti, come se non bastasse, la Guardia Urbana li costringe a spostarsi. “Per le Istituzioni è un problema estetico. Non possono rovinare l’immagine della città”. Il lucroso “Brand Barcelona” come lo chiama Cesar. È così i manteros finiscono ai margini di una società che finge di non vederli.
Adesso Daouda di anni ne ha 35. Sua madre e suo fratello vivono ancora in Senegal e lui continua a mandargli ogni mese qualcosa di quello che riesce a mettere da parte. Le rimesse dei migranti sono una vera e propria miniera d’oro per molti paesi africani. Solo in Senegal e solo nel 2017 sono arrivati 2 miliardi di euro. Il 13,7% del PIL del paese. A conferma che la migrazione è solo inizialmente un fenomeno individuale. In realtà, la dimensione collettiva è molto forte e importante. Ha trovato lavoro come cuoco per Deliveroo, si è sposato con una ragazza spagnola ed è finalmente riuscito ad ottenere i documenti. Gli ci sono sono voluti 12 anni. Il periodo da venditore ambulante è, ormai, solo un brutto ricordo da cancellare al più presto. “Nessuno di noi vieni in Spagna con l’obiettivo di fare l’ambulante. È il sistema che ci costringe perché non ci offre alternative”.

Per poter sollecitare il permesso di soggiorno devono aspettare 3 anni. Conservare tutto quello che possa dimostrare la loro permanenza sul territorio nazionale durante questo periodo. Hanno bisogno di lavorare, ma senza documenti non possono farlo in maniera regolare. Nè, tanto meno, possono prendere un appartamento in affitto. Se poi la Polizia li denuncia, il limbo nel quale vivono si trasforma in un purgatorio. Una sola denuncia può cancellare di colpo i mesi e gli anni, spesi ad aspettare. Come se non fosse passato nemmeno un giorno, devo ricominciare tutto da capo. Per questo scappano. Molti di loro aspettano anche 10 anni. Altri, invece, i documenti probabilmente non li avranno mai, ne è convinto Cesar.
Daouda ha sempre avuto la passione per la politica. Si capisce dal trasporto con cui ti racconta il disagio della sua comunità. Fin da quando è arrivato ha scelto di stare in prima linea in tutte le “battaglie” che i venditori ambulanti stanno portando avanti. La condizione dei manteros sembra essere peggiorata negli anni. “Quando ho cominciato io vendere per strada non era considerato un reato penale. Se ci fermavano passavamo un paio di notti in commissariato e poi ci facevano uscire. Nella peggiore delle ipotesi ti beccavi una multa”.

Negli ultimi tempi i Pubblici Ministeri, mi spiega Susan di SOS Racism, tendono invece a chiedere la pena più alta. “I processi sono molto lunghi e non vengono rispettate le garanzie processuali. Quasi mai il tribunale si preoccupa di verificare l’identità o la versione dell’imputato”. È successo a Manel nel 2017, per esempio, accusato di vendita ambulante non autorizzata e attentato all’autorità. Per lui el Fiscal aveva chiesto 4 anni di reclusione, salvo poi scoprire che era innocente e che lì quel giorno non c’era nemmeno. Non era la prima volta che veniva accusato ingiustamente. Negli ultimi anni ha ricevuto almeno quattro denunce per infrazioni che non ha mai commesso.
Il problema starebbe nell’attitudine che le forze dell’ordine hanno nei confronti di questi ragazzi. Secondo un Report di SOS Racism, infatti, dal 2010 al 2016 sono stati 77 i casi di razzismo che hanno visto implicati membri della Guardia Urbana. La nostra Polizia Municipale. Di questi, 44 sono vincolati alla vendita ambulante non autorizzata. Per questo, afferma Susan, hanno pensato di mettere a disposizione dei membri della Guardia Urbana degli specifici corsi di formazione.

Per Alba Cuevas, direttrice di SOS Racism, la repressione da parte delle forze dell’ordine, insieme al Codice Penale e alle regole sulla cittadinanza, la famigerata Ley de Extrajería, generano “un cocktail altamente pericoloso per il rispetto dei diritti umani”. SOS Racism si batte da anni per cambiare le “regole del gioco”. Nonostante il loro impegno, l’impressione è che per estirpare, quello che Alba chiama razzismo istituzionalizzato, di strada ce ne sia ancora molta da fare. Nel frattempo, i manteros devono fare i conti anche con i pregiudizi di quella parte della società civile che li considera alla stregua dei peggiori criminali. Un effetto pinza, che parafrasando Cesar Zuniga, finisce per stritolare le loro vite.
È per questo motivo che nel 2015, dopo la morte di Mor Sylla, è nato il primo Sindacato Popolare Venditori Ambulanti spagnolo. Un ponte tra le Istituzioni e un settore storicamente bistratto e criminalizzato. Mor Sylla aveva 50 anni e viveva a Salou, a pochi chilometri da Tarragona. Quando la Polizia ha fatto irruzione nel suo appartamento al terzo piano, preso dal panico, è saltato giù dal balcone. Dall’indignazione per quella morte assurda, in poco tempo, hanno iniziato a nascere i primi progetti destinati ai manteros. Con l’obiettivo, appunto, di sensibilizzare l’opinione pubblica e offrire a questi ragazzi un’alternativa legale alla vendita informale.

TOPMANTA e DIOMCOOP sono il risultato di questo progetto ambizioso. Lamine e i suoi amici hanno aperto il loro negozio solo nel luglio del 2017. Dopo il successo iniziale hanno deciso registrare il brand. Stampano in serigrafia magliette e felpe con il loro logo e con degli slogan piuttosto provocatori. Tutto questo è stato possibile grazie ad una campagna di crowdfounding durata 6 mesi e alla collaborazione con Playground, una rivista molto conosciuta a Barcellona. Con i soldi sono riusciti a comprare le attrezzature necessarie e hanno ripreso possesso delle loro vite.
DIOMCOOP, invece, esiste dal settembre del 2017. I 16 soci lavoratori di questa cooperativa di inserimento sociale erano tutti manteros prima. Adesso, invece, producono e vendono i propri capi d’abbigliamento. Tutto è partito, mi dice Laura, dalla pressione che il Sindacato Popolare Venditori Ambulanti ha fatto sulle Istituzioni cittadine nel tentativo di rispondere ad un’emergenza sociale troppo a lunga ignorata. Da qui l’idea del Comune di creare una Cooperativa con la prospettiva di far uscire questi ragazzi dall’illegalità, garantendogli autonomia lavorativa.
Baye è il jolly della cooperativa, mi pare di capire. Il suo ruolo è un mix tra il mediatore culturale e mental coach. Ufficialmente si occupa della coesione. È uno dei più “anziani”. È arrivato a Barcellona più di vent’anni fa ed è laureato in Storia. Anche lui come Daouda e Lamine è stato un mantero. È preoccupato perché molti ragazzi del Collettivo nonostante abbiano i documenti, per mancanza di alternative, continuano a vendere per la strada. La sua è una posizione delicata, però non può fare a meno di parlare dei pregiudizi e delle discriminazioni che subiscono i manteros a Barcellona. Ma anche dell’importanza che ha avuto l’autorganizzazione all’interno del Collettivo. Senza il quale questa opera di inclusione sociale sarebbe stata impossibile.
Fare il maniero non è una scelta ne un privilegio. È la conseguenza di scelte politiche ed economiche ben precise. I processi economici internazionali hanno trasformato i meccanismi produttivi. Innescato quello che viene chiamato esodo rurale, obbligando le persone ad affollare i grandi centri urbani. Metropoli trasformate in formicai. Finché non rimane altra scelta che emigrare in un altro paese. È quello che sta succedendo anche in Senegal, uno dei paesi con l’indice di crescita più alto del continente, ma con molti problemi ancora da risolvere. Dove migliaia di persone, giovani soprattutto, ogni anno salgono su quei cayucos di legno.
Sono i figli del colonialismo moderno, dicono molti di loro. Quello che non ha più bandiere e marcia unito sotto un unico vessillo. La globalizazioneha saccheggiato le prospettive future e i sogni di milioni di giovani senegalesi. Dettando i tempi di una modernità che fa rima con avidità. Figli di Francia, ma di seconda classe. Quando non di terza. Della Francia conoscono la storia, la cultura e la lingua. Salut, ça va? Continuava a ripetere Daouda appena sbarcato in Spagna. Pensava che tutto il mondo parlasse francese.
Mattia Bagnato