“Ancora troppi reati di violenza contro le donne” si legge in un comunicato del Censis del 3 maggio scorso, che presenta alcni dati raccolti con il contributo del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio. Nei primi otto mesi del 2018, alle 2.977 violenze sessuali denunciate si aggiungono 10.204 denunce per maltrattamenti in famiglia, 8.718 denunce per percosse e 8.414 per stalking.
Per la prima volta il report mostra una fotografia nazionale dei 338 centri antiviolenza presenti in Italia, in cui le donne accolte nel 2017 sono state 33mila. Ma a chiedere aiuto, senza entrare nel programma di protezione, sono state oltre 50 mila, come riporta La Repubblica.
Un crimine antico, il maltrattamento sulla donna, che ha trovato una insoddisfacente risposta nel cosiddetto Codice Rosso. Il ddl approvato il 17 luglio dal Senato, fortemente voluto dalla ministra della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno e dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, entra in vigore oggi.
Cosa prevede il Codice Rosso
Con 197 voti favorevoli e 47 astenuti il Codice Rosso è diventato legge. Scopo principale è quello di contrastare la violenza di genere, ma che misure prevede?
Assoluta novità è l’introduzione del reato di “revenge porn”, la pratica di diffondere immagini o video privati senza il consenso dell’interessata, cui incorre una pena fino a 6 anni di carcere e una multa fino a 15 mila euro. La pena aumenta se i fatti sono commessi dal coniuge, anche se in seguito a separazione o divorzio, in danno di persona in condizioni di inferiorità psichica o fisica oppure in stato di gravidanza.
Nel codice penale arriva anche il reato per chi sfregia con acido il viso altrui. Questo è punibile con la reclusione fino a 14 anni, invece se lo sfregio causa la morte della vittima la pena sarà l’ergastolo.
Diventa poi reato la violazione dell’ordine di allontanamento. Sono previsti, sulla carta, trattamenti psicologici in carcere per i maltrattanti e i violenti, un’ottima intenzione che però potrebbe rimanere tale, dal momento che non sono previste coperture finanziarie per queste delicate attività.
Oltre a prevedere pene più severe per chi commette stalking e punire la violenza sessuale con il carcere fino a 12 anni – ove a subirla siano minori di 14 anni in cambio di denaro – hanno fatto discutere le tempistiche dei procedimenti. Il Codice Rosso, nato infatti con l’obiettivo di abbattere i tempi della giustizia con indagini più veloci, prevede che il periodo utile per denunciare sia di 12 mesi. La polizia giudiziaria sarà tenuta a comunicare al pubblico ministero le notizie di reato anche in forma orale, introducendo una presunzione assoluta di urgenza. E, infine, la donna verrà ascoltata dal magistrato entro 3 giorni dall’avvio del procedimento.
Eppure, pur apprezzando l’introduzione di fattispecie di reato importanti come revenge porn, matrimoni forzati e lesioni permanenti al viso, uno Stato che aumenta solo le pene e non tenta di prevenire a monte il problema dà l’impressione di arrivare sempre dopo la violenza.
Le critiche
“Un testo assolutamente insufficiente, insostenibile, dunque inefficace” afferma Lucia Annibali, avvocata e deputata del Partito Democratico,sfregiata con l’acido da due uomini mandati dal suo ex fidanzato. Il suo è “un impegno professionale e politico” che sottolinea le stesse preoccupazioni già sostenute dal Consiglio Superiore della Magistratura.
Il motivo sta nella norma principale: i tre giorni in cui il magistrato può intervenire rischiano di vittimizzare una seconda volta la donna. Non è difficile immaginare che nel momento in cui il magistrato predispone misure di sicurezza, il partner o ex partner si faccia trovare sotto casa e colpisca. Ma a farla franca, in questa legge, sono i possibili sconosciuti stalker o persecutori che non vengono menzionati: si parla solo di violenza nell’ambito delle relazioni affettive. Dunque un’arma a doppio taglio che, per il Csm, “rischia di creare un inutile disagio psicologico alla vittima e un appesantimento difficilmente gestibile per gli uffici giudiziari e le forze di polizia”.
Dello stesso avviso sono Valeria Valente, presidente della Commissione di inchiesta sul femminicidio, che parla di “occasione mancata” e Lella Palladino, presidente di D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, la rete nazionale dei centri antiviolenza. “Le obiezioni sostanziali espresse nel corso delle audizioni non sono state prese in considerazione da un testo governativo blindato che riflette una percezione della violenza sulle donne come fenomeno emergenziale da affrontare esclusivamente con misure penali e securitarie, nonostante i fatti dimostrino ampiamente che si tratta di una manifestazione strutturale della disparità di potere tra uomini e donne”, aveva affermato nei mesi scorsi Palladino.
E come si pensa di impedire l’avvicinamento dei carnefici alle vittime, se non vengono stanziati finanziamenti alle case rifugio e centri antiviolenza, minimamente menzionati nella legge? “Hanno dimostrato numeri alla mano – oltre 21.000 donne accolte ogni anno solo nei centri D.i.Re – di essere l’unico presidio per coloro che vogliono uscire da una relazione violenta”, si legge nel comunicato del 5 aprile scorso. Non è neanche previsto un finanziamento per questo tipo di strutture. “ Tutto questo depotenzia totalmente le misure previste per la formazione del personale giudiziario e di polizia” ha aggiunto Elena Biaggioni, avvocata penalista e coordinatrice del Gruppo avvocate dell’associazione.
Sanzioni più severe e processi più rapidi non bastano per superare le difficoltà che la donna deve affrontare nel percorso di uscita dalla violenza. Per fronteggiare questa tipologia di reati e stabilire un dialogo più adeguato con le vittime non occorrerà solo la formazione – resa obbligatoria ma non finanziata – delle Forze dell’Ordine, ma la distinzione delle ipotesi di reato prima dell’ascolto della vittima, l’introduzione del discorso sui ruoli di genere fin dalla tenera età e gli investimenti nei centri antiviolenza e nelle case rifugio, perché la violenza è un problema culturale.
“Occorre, quindi, avere una visione d’insieme che contribuisca a creare una società più paritaria con politiche sociali, economiche ed educative adeguate“, questa la visione di Annibali, secondo cui “la violenza non è emergenza sociale bensì un fenomeno strutturale della società”. Una società che non tiene conto della violenza di genere a tutto tondo, ma solo di donne coinvolte in coppie etero, dimenticandosi così delle donne migranti, trans o gay.
La responsabilità dei discorsi pubblici è alleata di un’efficace lotta a difesa delle donne
“L’Italia vive una pericolosa deriva sessista. Come facciamo a contrastare la violenza sulle donne, se gli insulti alle donne arrivano proprio dalla politica, anzi dai suoi esponenti più importanti?” ha dichiarato il sottosegretario M5s Vincenzo Spadafora riferendosi alle prese di posizioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini, evidenziando così il paradosso di una legge che punisce, ma non previene e anzi attraverso le parole di alcuni esponenti del governo rafforza la discriminazione.
Anche se il leader leghista si dice dalla parte delle donne non può farsi portavoce dei loro diritti. Con frequenza, infatti, espone donne, politiche e non, all’aggressività del suo elettorato non preoccupandosi di cancellare nemmeno un commento e, anzi, lasciandosi andare in prima persona in espressioni discriminatorie, razziste e di incitazione all’odio.
Basti pensare alla foto delle studentesse che parteciparono al corteo milanese “No Salvini Day”. Occasione in cui senza oscurare i volti delle minorenni le consegnò alla gogna mediatica e nel giro di pochi minuti furono sommerse di insulti. Carola Rackete, comandante della Sea Watch etichettata come “zecca” e “viziata comunista”, ed ancora la presidente della Camera Laura Boldrini paragonata ad una bambola gonfiabile. La lista degli insulti alle donne da parte del ministro leghista e del suo elettorato è veramente lunga.
Ma come può un ministro sovraesporre con leggerezza una donna soltanto per aver espresso la propria opinione? Aprire le porte all’odio sessista non significa stare dalla parte dei diritti delle donne, ma sfruttare il dramma della violenza di genere solo per una scarna propaganda elettorale.
Francesca Lisi
Foto di copertina: Michele Spatari / 2017