salute mentale migranti

Esiste una tutela del diritto alla salute mentale per i migranti?

Cosa succede a chi si sposta dal suo luogo di origine? La metà dei rifugiati del mondo rimangono in “situazioni protratte”, instabili e insicure nelle città ma anche nei campi profughi. Questi “limbi” in cui le persone si trovano a vivere anche per anni creano problematiche anche a livello psicosociale. Uno studio del 2009 dimostrava che c’era una prevalenza di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e depressione circa al 30%, e le cause principali erano l’esposizione alla tortura e a una serie di eventi traumatici. Uno studio più recente ha riscontrato una riduzione (15%). Nonostante ciò la prevalenza di PTSD supera la stima dell’OMS dell’1,1% registrata nella popolazione non rifugiata. Le ricerche individuano quanto sia importante l’impatto con l’ambiente post-migratorio sulla salute mentale dei migranti. Tra le condizioni problematiche ci sono una prolungata detenzione, uno status insicuro, condizionato anche dalle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato, e la mancanza di servizi. Questo aggrava i sintomi di PTSD e depressione che sono stati riportati da un numero crescente di report in campi profughi e centri di accoglienza anche molto distanti tra loro. A Dadaab in Kenya, a Bidi Bidi in Uganda e nel centro di accoglienza di Moria sull’isola di Lesbo si diagnosticano sempre più spesso disturbi collegati alla salute mentale tra cui PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder), depressione, autolesionismo, suicidi e tentati suicidi.

Dal Kenya all’Italia: cambiano i luoghi, non i problemi

Dadaab è uno dei più grandi campi profughi al mondo e si trova nella zona orientale del Kenya, vicino al confine con la Somalia. Qui ci sono famiglie che si trovano lì da più di tre generazioni. Nel 2017 a più di 4.500 rifugiati in questo campo era stato diagnosticato un qualche disturbo mentale. Secondo il dottor Abdille, dell’ufficio associato per la salute pubblica dell’UNHCR, la malattia mentale è un problema comune nel campo. “I rifugiati attraversano tante difficoltà come preoccupazioni per i familiari lasciati indietro, incertezza riguardo istruzione e altri servizi sociali, mancanza di adeguate opportunità per le famiglie, […] che possono essere cause di complicazioni per la salute mentale.” spiega. Tra le barriere che MSF (Medici senza frontiere) ha riscontrato nell’operare con queste persone, oltre alla lingua e alla cultura, c’è la mancanza di consapevolezza dell’impatto delle loro esperienze sulla salute fisica e mentale. In più ci sono pregiudizi e stigma legati alla malattia mentale che impediscono agli operatori di intervenire. Nel 2011, l’UNHCR riscontrò anche l’insufficienza del personale medico qualificato e degli interventi che venivano fatti nell’ambito della salute mentale.

Nell’Uganda settentrionale al confine con il Sud Sudan si trovano altri campi profughi. Più di un milione di persone sono fuggite dal Sud Sudan dallo scoppio della guerra civile nel 2013. Il campo profughi di Bidi Bidi, per esempio, ospita 275 mila persone ed è uno dei più grandi campi di rifugiati del mondo. La maggior parte dei rifugiati a Omugo, un altro campo, ha sperimentato violenza e traumi; i tassi di depressione, PTSD e altre condizioni psicologiche sono estremamente alti. Ma anche qui uno dei problemi che le ONG, tra cui Humanity and inclusion, riscontrano è la non consapevolezza di quello che rappresenta la loro condizione. MSF ha osservato che nel 2016 c’è stato un incremento di suicidi e tentati suicidi, pure tra i bambini. Secondo World Vision, il 60% dei bambini ha bisogno di una terapia per gli effetti della PTSD. Molti ragazzi mostrano disturbi tra cui insonnia, comportamento regressivo e comportamenti autolesionisti

Alle porte dell’Europa si trova invece l’isola di Lesbo, che da qualche anno è diventata quasi interamente un campo profughi. A Moria, Centro per la prima accoglienza dei migranti, si trovano i richiedenti asilo che attendono di avere una risposta e di poter entrare in Europa. Il rapporto Unprotected, unsupported, uncertain dell’IRC (International Rescue Committee) racconta la condizione di queste persone nel limbo di questa bellissima isola diventata inferno. Gli “abitanti” del campo non hanno nessuna scelta se non vivere nelle condizioni loro “offerte”: 8.500 persone in un luogo che ha una capacità di 3.100, una doccia in 84, poche concrete informazioni sul futuro e lunghe attese per le domande d’asilo (mesi se non più di un anno), lunghe file per avere cibo e acqua, donne che vengono aggredite e violentate, risse e violenza.

Queste condizioni aggravano la situazione dei migranti che si trovano a Lesbo e per questo necessitano ancora di più di servizi per la salute mentale. Il centro MHPSS dell’IRC a Mytilene registra tassi alti di suicidi: il 30% delle persone visitate ha tentato il suicidio, il 60% ci ha pensato. Il 40% soffre di PTSD e il 64% di depressione, mentre il 15% ha compiuto atti di autolesionismo. La violenza di genere e sessuale sia su uomini che su donne ha colpito il 50% delle persone che IRC assiste, di cui il 67% donne e il 33% uomini. MSF riporta che, nel 2018, il 25% di un gruppo di bambini tra i 6 e i 18 anni assistiti dallo staff dell’ONG ha compiuto segni di autolesionismo, ha pensato di tentare o tentato il suicidio. Inoltre molti bambini soffrono di attacchi di panico e incubi costanti. Una donna che vive nel campo di Moria riporta:

“Lei [sua figlia di 14 anni] cammina sempre con un coltello e dice che si farà del male. Ho già trovato un coltello due volte sotto il suo cuscino. Quando la lascio sola, lei tiene la testa abbassata e piange sempre.”

Tre sono le principali condizioni che hanno un impatto sulla fragile salute mentale di chi è prigioniero a Lesbo: la mancanza di protezione, la mancanza di supporto e la mancanza di una qualsiasi certezza sul futuro.

Fotografia di Marianna Karakoulaki

Non più rosea è la situazione in Italia. Infatti, c’è stato il bisogno di affrontare il problema della salute delle persone che sono state accolte nel nostro Paese. Nel rapporto del 2016 di MSF Italia, “Traumi ignorati”, si evidenziano le principali difficoltà di chi arriva e l’inadeguatezza dei servizi forniti loro. La migrazione può, infatti, rappresentare un’evoluzione individuale ma espone anche a molteplici fattori di rischio, come la separazione dal proprio contesto familiare e sociale, la perdita dei sistemi di supporto, l’esistenza di barriere linguistiche e culturali, le difficili condizioni socio-economiche, che possono influenzare la salute fisica e mentale. Oltre a queste condizioni precedenti l’arrivo in Italia, non aiuta il fatto che la prima accoglienza si svolga in centri non adatti, come i CAS (Centri di accoglienza straordinaria), che sono stati istituiti in una condizione di emergenza e che dovevano accogliere i richiedenti protezione internazionale per brevi periodi.

Molti di questi non hanno un adeguato servizio di supporto psicologico e molte possibilità dipendono da cosa prevede la convenzione stipulata con la Prefettura. Spesso l’assistenza sanitaria è garantita attraverso le strutture del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) ma manca un monitoraggio su quello che gli enti gestori dei CAS fanno effettivamente e spesso l’applicazione dei servizi è discrezionale. Dallo studio che MSF Italia ha fatto risulta uno scollamento e una mancanza di dialogo tra i CAS e i servizi territoriali, dovuto alla mancanza di risorse o alla non competenza del personale che si occupa delle persone richiedenti protezione internazionale. Ci sono anche esperienze positive in cui privato sociale e servizi territoriali hanno cooperato per fornire un supporto adatto oppure nella realtà milanese in cui si è sviluppato un approccio interessante con il coinvolgimento di mediatori culturali e formazione del personale medico nel riconoscere elementi clinici delle vittime di traumi, oltre che costante formazione degli operatori. Questi progetti non sono tuttavia sufficienti.

I disagi che sono stati riscontrati tra le persone sottoposte a colloquio sono disturbi attribuibili all’ansia, PTSD, depressione, disturbi della personalità e cognitivi. Inoltre MSF ha spesso rilevato una duplice diagnosi, per esempio, PTSD coesistente con disturbi legati all’ansia o depressione.

Nel rapporto MSF Italia riporta che alla fine del percorso terapeutico la maggior parte dei pazienti (67,3%) presentava miglioramenti. In particolare chi è affetto da PTSD e da depressione ha un miglioramento nel 60% dei casi, mentre tra i soggetti con disturbi di ansia si registra un miglioramento nell’ 80%.

Rapporto Special Rapporteur per il diritto alla salute: salute mentale e migrazioni

A sottolineare la rilevanza di queste problematiche che UNHCR e ONG riscontrano nei campi profughi, l’ultimo rapporto dello Special Rapporteur delle Nazioni Unite per il diritto alla salute, Dainius Puras, parla proprio di salute mentale, legata alla facoltà dell’uomo di muoversi, di migrare, a prescindere dai motivi per cui lo fa e da quale sia il suo status, partendo dal fatto che ogni uomo è “detentore” di diritti (rights-holder). In questo documento, Puras sottolinea come i temi della salute mentale e delle migrazioni siano una questione importante nell’attuale momento storico e che per provvedere alla salute mentale di chi si muove si debbano creare strutture e sistemi che possono aiutare anche la popolazione locale che accoglie. Inoltre, rileva che la salute mentale è influenzata da tantissimi fattori, biologici, sociali e psicologici e che i conflitti, la violenza e le diseguaglianze socio-economiche hanno un impatto determinante sulla salute mentale.

In questo rapporto si sostiene che quando si “tratta” la salute mentale bisogna intervenire coinvolgendo la persona nel proprio benessere psicologico, cioè facendola partecipare in maniera attiva e non curandola unicamente tramite la somministrazione di psicofarmaci. Si considera in questo modo non solo la componente psicologica, ma anche il contesto sociale, culturale, economico e politico in cui quel soggetto vive o ha vissuto. Spesso la situazione delle persone che migrano è stata “confinata” nelle categorie mediche di trauma, disturbo o malattia dimenticando, anche se in buona fede, la ricchezza della condizione umana che riflette anche i significati sociali, culturali e politici che un’esperienza di migrazione rappresenta. Infatti, un approccio alla salute mentale basato sui diritti riconosce che l’ambiente sociale in cui una persona si trova è una determinante per la sua salute. Quindi il livello crescente di emarginazione e di comportamenti prevalentemente negativi verso le persone che migrano aggrava la loro situazione.

Anche l’OMS sottolinea che le persone che vivono o hanno vissuto un’emergenza sono più vulnerabili verso problemi legati alla salute mentale. Tra le difficoltà che si devono affrontare in questi contesti a livello sociale ci sono le separazioni familiari, la sicurezza, la discriminazione, la perdita del proprio contesto di vita, bassa fiducia e risorse, sovraffolamento dei campi profughi e dei luoghi dell’accoglienza, mancanza di privacy e perdita del supporto della comunità. Inoltre ci sono problemi che sono di natura più psicologica come depressione, ansietà, PTSD, mancanza di informazioni riguardanti la quotidianità come la distribuzione del cibo. Inoltre, sperimentare conflitti, disastri, perdita e senso di isolamento sono fortemente associati a comportamenti suicidi.

UNHCR’S MHPSS: Mental Health and Psychosocial Support

Nel 2013 l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha pubblicato un documento in cui si definisce quale sia il supporto psicosociale che bisogna dare a chi migra. Questo tipo di interventi dovrebbe agire sugli effetti psicologici, tra cui quelli sul comportamento, le emozioni, i pensieri, la memoria e su quelli sociali, come i cambiamenti nelle relazioni, nello status economico e sociale.

I MHPSS (Supporto alla salute mentale e psicosociale) sono un qualsiasi tipo di supporto che mira a proteggere o promuovere il benessere psicosociale e/o prevenire o trattare i disturbi mentali.

In pratica, si traduce negli interventi che vengono fatti nel campo dei MHPSS e che agiscono a vari livelli: da quelle situazioni in cui un disagio psicologico si manifesta anche in assenza o prima di un conflitto o di una migrazione a quelle in cui gli individui manifestano i “sintomi” come conseguenza di un’emergenza e di eventi traumatici. Inoltre vi sono anche soggetti che manifestano un qualche tipo di disagio psicosociale a causa dell’incertezza verso il futuro.

L’UNHCR raccomanda la predisposizione di questo tipo di supporto da parte di chi interviene in queste emergenze, in particolare dal personale delle Nazioni Unite, ma anche da partner che collaborano con l’Alto commissariato come ONG, e se possibile anche gli Stati, soprattutto quelli che si trovano ad occuparsi di persone che possono manifestare questi disagi devono attrezzarsi per fornire tali servizi.

Che sia un cittadino di uno Stato europeo che va dal medico o un richiedente asilo alle porte dell’Europa, un bambino nel campo di Bidi Bidi o una donna che vive nel campo di Dadaab da generazioni, ha diritto in quanto essere umano, parte della fragile famiglia umana, al più alto standard possibile di salute, fisica e mentale. Probabilmente nessuno di noi veramente gode della perfetta salute ma ci sono situazioni che ci dovrebbero interrogare su quali siano le nostre priorità. E su cosa si può fare per rendere quel diritto un po’ più tutelato per tutti.

Erica Torresan

Questo articolo è parte del Project Work che Erica, studentessa del corso di laurea in Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani dell’Università degli Studi di Padova, sta svolgendo presso la redazione di The Bottom Up. 

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