Emarginazione e violenza, le voci di donne dalle periferie

Emarginazione e violenza, le voci di donne dalle periferie

difesa dei diritti delle donne e nell’eliminazione della violenza di genere , con progetti attivi in Italia, Africa, Asia e Sud America, a Roma, presso la Camera dei Deputati, i risultati di una condotta tra maggio e luglio 2018 in alcune periferie metropolitane italiane insieme ad Ipsos, con un che abitano queste aree. La data non è casuale: di lì a pochi giorni si sarebbero infatti celebrate la Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (20 novembre), e la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne (25 novembre). “la violenza sulle donne è un fenomeno strutturale caratterizzato da trasversalità territoriale, generazionale e di appartenenza sociale” non è necessariamente connesso alle condizioni educative, economiche e sociali di “vittime” A confermarlo sono i dati delle più importanti ricerche nazionali ed internazionali ( la violenza venga esercitata per lo più tra le mura domestiche problema di salute globale di proporzioni epidemiche” che colpisce il 35% delle donne nell’arco della loro vita. In Italia, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito qualche forma di violenza fisica o sessuale (2014), “il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri”. E ancora: “I partner attuali o ex commettono le violenze più gravi. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Gli autori di molestie sessuali sono invece degli sconosciuti nella maggior parte dei casi (76,8%)”. Numeri che ribadiscono, qualora ce ne fosse bisogno, la condizioni economiche svantaggiate e livelli di istruzione medio bassi possono invece incidere sulle possibilità di intraprendere percorsi di fuoriuscita dalla violenza , talvolta persino di riconoscerla, soprattutto quando viene esercitata nelle sue forme più subdole e meno evidenti, com’è il caso della violenza economica e di quella psicologica. In alcuni casi, nemmeno le reti amicali e familiari sono in grado di comprendere e di fornire il supporto necessario. “Mia mamma è soltanto contenta perché mi sono liberata di questa persona perché comunque si vedeva che proprio stabile non era e che non mi trattasse bene. Mio padre è ancora più complesso perché come uomo non riesce a capire perché io abbia allontanato il bambino dal padre, cosa che non è andata così, non l’ho allontanato io, sono state le circostanze, i giudici.” in profondità condotte a donne di età compressa tra i 16 e i 61 anni, di cui sette di origine non italiana, residenti a Milano Nord, San Basilio a Roma, Scampia a Napoli e Borgo Vecchio a Palermo, dove WeWorld Onlus ha avviato nel 2014 (più recentemente a Milano) il , con l’obiettivo di fare da supporto ai centri antiviolenza e ai servizi territoriali nell’emersione e prevenzione della violenza contro le donne, nonché nell’ , fenomeno spesso trascurato che vede più del 60% dei figli assistere alle violenze intrafamiliari: hanno dichiarato di aver vissuto nella loro vita una qualche forma di violenza, nella maggior parte dei casi proveniente dal partner e perpetrata di fronte ai figli, anche minorenni. Assistere o vivere direttamente la violenza sembrerebbe aumentare il rischio di divenirne a propria volta autori. Dunque, è necessario lavorare per radicare l’idea che la violenza domestica si fonda sulla La condizione femminile che emerge dalla ricerca ci restituisce infatti uno spaccato poco felice: tra le donne sposate, permane una , spesso “condizionato da una cultura fortemente discriminatoria nei confronti delle donne l’occupazione scarsa. Sulle donne pesa in maniera esclusiva e totalizzante la gestione domestica: , per la difficoltà di trovare un’occupazione stabile ma anche per lo scetticismo di riuscire a conciliarla con la cura della famiglia. “Durante il giorno sto a casa. Faccio la casalinga, porto i bambini a scuola, a calcetto, faccio la spesa. Questo è, diciamo, quello che faccio”, racconta Rita, sposata con tre figli. In molti casi, il compagno/marito esercita vere e proprie forme di controllo sulle scelte lavorative della partner, e ciò si traduce tra l’altro in uno stato di Infine, ad incidere sull’esclusione sociale delle donne considerate nel campione sono anche le : in controtendenza rispetto ai discorsi politici e mediatici, a preoccuparle maggiormente non sono la sicurezza né l’immigrazione, ma la manutenzione degli spazi pubblici e del verde, la gestione dei rifiuti, la pulizia delle strade e l’isolamento fisico. L’opinione negativa del proprio quartiere può tradursi anche in un atteggiamento remissivo, di accettazione passiva e nel mancato accesso ai servizi, spesso presenti ma inutilizzati o poco conosciuti. “Azioni quotidiane diventano impossibili e sono quelle che fanno la qualità della vita. per cui se anche una cosa semplice, quotidiana, normale deve essere una corsa diventa complicata e diventa faticosa da conseguire come obiettivo, ne va della qualità della vita”, ci dice Patrizia, 50 anni, sposata, due figlie. è fondamentale affinché le donne prendano consapevolezza delle proprie risorse e capacit-azioni. In questo senso, la presenza di figli spesso è la in grado di far scattare la reazione delle donne, ma gli esiti non sono scontati. E non dobbiamo stupircene, alla luce del , che ribadisce, in un’ottica del tutto adultocentrica, la necessità di garantire la bigenitorialità. Ma se il padre fosse un genitore maltrattante? Mediazione familiare obbligatoria – in aperto contrasto con la del 2011, che ne proibisce l’obbligatorietà – e il riferimento alla sindrome di “alienazione parentale” sono che inficiano lo spazio di manovra delle donne, costantemente minacciate di perdere la custodia dei figli. Dunque, meglio non separarsi. Oppure aspettare che i figli crescano, tirando avanti e sopportando. Drammatico, se si considerano i , che a differenza del numero degli omicidi di individui di sesso maschile, in calo, rimane costante. Nel 2016, in tre casi su quattro sono stati commessi in ambito familiare Negli ambienti femministi si è progressivamente fatto strada, a partire dagli anni ’70, l’utilizzo del termine , perché più adatto a riconoscere il ruolo attivo esercitato da tutte le donne che lottano contro le violenze subite.