Che (teatro) fare? Il Festival 20 30 salta nel vuoto

Sono domande inevase sul teatro, che pochi hanno il coraggio di fare e di farsi. Ma tra i pochi, i giovani Giovedì, dentro un piccolo portone di via delle Moline (a Bologna), si apre un grande sipario su artisti e spettatori, intenti a riflettere sul futuro del teatro. Il Teatro delle Moline diventa una tavola rotonda, le luci da palcoscenico sono accese ma non c’è né palco né platea: attori, critici, passanti e curiosi seduti in cerchio. , che oggi veniamo bene in fotografia. Ci autorappresentiamo e ci autodipingiamo. Se un tempo il teatro parlava del mondo, ora parla dell’ si mette in discussione? Prima o poi, dovrà approdare ad un che la diresse nel 2014, fu “solitaria” e la percezione era di freddo. In quattro anni si può dire di essere diventati un , di essersi scongelati in una sorta di tepore in cui tanti di Modena, un gruppo di giovani spettatori attivi, con la soluzione: un teatro che esce dal e incontra gli altri è un teatro in città, nei parchi, nelle strade. Insomma un teatro fuori dal teatro. E piano piano, oltre alla quarta parete, si smontano la terza, la seconda e la prima, e il teatro trasforma il suo spazio. Il suo spazio e il suo tempo: il “qui e ora” è ormai un cliché. La vita di tutti i giorni è tutto e subito, immediata, non-mediata, senza schemi e senza filtri. La necessità teatrale diventa quindi di essere filtri corporei e sonori della realtà. Non può essere soltanto un autoaffresco generazionale, che ci ritrae in un solo momento, fisso. Auguriamoci di vivere nel presente, certo, ma in un presente storico. ha parlato dell’importanza di reiserirsi in un percorso e in un contesto storico, a cui ci sentiamo estranei. Proprio in forza di questa riconquistata storicità possiamo riprodurre i classici, non pedissequamente, ma riconoscendoci in essi. Il festival 20 30 fa memoria, dunque, ma salta nel vuoto. Dopo la “Catastrofe” del 2017, “Salto nel vuoto” è il tema di questa edizione. Il vuoto è la dimensione di oggi, e questo non ci va giù. Le decidono invece di abitare questo vuoto, di imparare ad ascoltarlo, ad accoglierlo. Scrivono: “Ma ora, se dobbiamo schiantarci, tanto vale goderci il volo.” Diamoci il tempo di occupare il vuoto, diamo tempo al tempo. ci racconta l’esperimento di costruire uno spettacolo sul tempo ad episodi, non assimilandolo a qualsiasi Un teatro che vive nella consuetudine, dunque, come la Volpe che torna dal suo Piccolo Principe ogni giorno alle tre. La necessità teatrale è di stare nelle maglie della relazione, ma anche nelle maglie del conflitto, nelle maglie dell’irrisolto. Nove: almeno una produzione per stagione deve essere ripetuta o eseguita in una zona di conflitto o di guerra, senza alcuna infrastruttura culturale. , che sostiene un teatro coraggioso, che “scaglia fulmini”, che ci fa agire e progredire. Uno: non si tratta più soltanto di ritrarre il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa. Il teatro può essere un grande contenitore di realtà, forse il più grande e neutro tra le arti. Giovanni Ortoleva sostiene che esso stesso possa assumere preponderanza in un ottica di contaminazione e commistione tra le arti, proprio per questa sua malleabilità. Teatro è più della semplice rappresentazione, più degli attori sul palco e della sceneggiatura. che si occupa di laboratori e di formazione ad essere spettatori con bambini e ragazzi dai 6 ai 19 anni. Se si chiede ad un bambino cosa gli è piaciuto di più, risponderà che il lampadario del teatro era bellissimo, o che gli è piaciuto il viaggio in autobus. Intorno allo spettacolo c’è un alone, una strada che ci porta lì. C’è un effetto “risonanza”, “come un cuore caldo in modalità di scatto”, scrive una piccola partecipante del laboratorio, di nome Ambra. E questa risonanza, quest’eco è la mediazione che il presente immediato non offre. “E anche quando credete di star guardando lontano, guardate ancor più lontano”. B. P.