“My life is not your porn” così recitava uno dei tanti manifesti innalzati dalle donne sudcoreane durante una marcia tenutasi lo scorso 4 agosto a Seoul, per protestare contro i continui abusi subiti e la frustrante carenza di misure di tutela da parte delle autorità. Nel corso degli ultimi anni, le donne dell’Estremo Oriente hanno iniziato a uscire dal silenzio e a opporsi alle frequenti violazioni dei propri diritti, con richieste, denunce e iniziative di autotutela che, sull’onda del movimento #MeToo, hanno raggiunto il loro apice in questo 2018.
Il Giappone e la sua “vergogna segreta”
Nel Paese del Sol Levante, parlare di stupri e molestie rimane ad oggi un tabù. Tutti sanno che il fenomeno esiste, ma nessuno ne parla e nessuno ne vuole sentir parlare. Le vittime restano relegate a un doloroso silenzio, tanto che secondo le stime solo il 4% delle donne giapponesi denuncia alla polizia le violenze subite, mentre una grande maggioranza non ne parla con nessuno, neppure con famigliari o amici. Le cose hanno iniziato a cambiare, seppur lentamente, e un contributo fondamentale è venuto dal coraggioso gesto di una giovane giornalista, che nel maggio del 2017 ha dichiarato pubblicamente di essere stata vittima di stupro da parte di un collega. Shiori Ito, ventinovenne, ha deciso di raccontare la propria storia in un documentario dall’emblematico titolo “Japan’s Secret Shame” (la “vergogna segreta del Giappone”) prodotto dall’emittente televisiva britannica BBC. La reporter ha denunciato il noto giornalista nipponico Noriyuki Yamaguchi di averle somministrato droga di nascosto, mentre i due discutevano di un’opportunità di lavoro in un sushi bar, e di averla in seguito violentata in un hotel di Tokyo. Yamaguchi, personalità di spicco vicina al primo ministro Shinzo Abe, ha rigettato le accuse e le autorità giudiziarie hanno finito con l’archiviare il caso. Data la rarità con cui vicende simili diventano di pubblico dominio, la storia di Shiori Ito è diventata presto uno scandalo nazionale, che ha fatto discutere e ha mosso le coscienze di molti, aprendo gli occhi dei giapponesi su una realtà tenuta troppo a lungo nascosta. Al tempo stesso, il permanere di una mentalità marcatamente maschilista è costato alla giovane giornalista insulti e perfino minacce di morte. “In Giappone,” ha affermato la Ito “gli stupri tendono ad essere considerati come qualcosa che succede solo nei film.” Denunciarli apertamente, nella vita reale, è un atto rivoluzionario.
Il Giappone è generalmente visto come un Paese con un alto livello di sicurezza, grazie soprattutto a un tasso di criminalità tra i più bassi tra quelli delle nazioni industrializzate, ma le donne non si sentono sicure. Cultura e società sono spesso schierate contro di loro e ne deridono i timori. Frasi come “iya yo iya yo mo suki no uchi” fanno parte del gergo comune e significano che, nell’immaginario collettivo maschile, quando una donna dice di no sta in realtà acconsentendo indirettamente. È solo troppo timida o pudica per dirlo esplicitamente. La colpa delle violenze ricade quasi sempre sulla vittima, per i suoi atteggiamenti, per il modo di vestire, per l’aver volontariamente deciso di incontrare l’uomo che l’ha poi attaccata, l’aver volontariamente deciso di sedersi al tavolo di un bar con lui.
Questa attitudine a sminuire la gravità di tali comportamenti e il sessismo che ancora permane nella cultura giapponese sono la ragione per cui fenomeni, come il cosiddetto chikan, sono ampiamente diffusi.
Con il termine chikan, che indica in generale molestie a sfondo sessuale, si fa riferimento soprattutto alla tendenza, pericolosamente popolare, di palpeggiare ragazze e giovani donne senza il loro consenso, approfittando della promiscuità di luoghi affollati, quali treni, autobus, ascensori. Un fenomeno odioso, che costringe le donne a vivere sull’attenti, vigili e guardinghe, ma così diffuso da aver reso necessaria, già da diversi anni, l’organizzazione di carrozze di treni e metropolitane a uso esclusivamente femminile (manca però una legislazione che regoli tale pratica, così come sanzioni per gli uomini che vi contraddicano).
Corea del Sud: lo scandalo delle spycam nei bagni pubblici femminili
Mentre le donne giapponesi trovano pian piano il coraggio di rompere il silenzio, anche le vicine sudcoreane si ribellano contro le violazioni dei propri diritti, in seguito allo scandalo delle spycam usate dagli uomini per spiarle in momenti di privacy. La rabbia è esplosa nel Paese a causa del sempre crescente numero di segnalazioni di ritrovamenti di microtelecamere nascoste in luoghi quali i bagni pubblici femminili, gli spogliatoi di palestre e piscine, i camerini dei negozi. Queste sono usate per filmare le donne nell’atto di svestirsi, per poi pubblicare i video in rete, su popolari siti pornografici. Dal maggio di quest’anno, decine di migliaia di donne sono scese nelle strade per protestare contro il dilagare di questo spaventoso fenomeno che sta raggiungendo proporzioni endemiche e contro la carenza dei provvedimenti intrapresi dal governo in tutela delle vittime. Nel mese di luglio, 55000 donne hanno marciato nelle vie di Seoul, e altre 40000 il 4 agosto. Le forze dell’ordine sono state incaricate di ispezionare i luoghi pubblici maggiormente a rischio, venendo spesso affiancate da squadre di volontari e attivisti, e sono state organizzate attività educative volte ad insegnare alle donne a individuare e mettere fuori uso le microcamere nascoste negli ambienti e in oggetti di uso comune.
La Corea del Sud, uno dei Paesi più tecnologicamente avanzati al mondo, non è nuova a questo genere di molestie. Storie di persone ignare, filmate o fotografate a loro insaputa, hanno infiammato gli animi dell’opinione pubblica nel corso degli anni. Le autorità hanno cercato di porvi rimedio con una serie di provvedimenti, tra cui l’obbligo per i produttori di smartphone che intendono vendere i propri telefoni cellulari nel Paese di togliere l’opzione che permette di silenziarne la fotocamera. Il suono dell’otturatore, al momento dello scatto, dovrebbe mettere all’erta le potenziali vittime, fungendo al contempo come deterrente per i malintenzionati.
Cina, il movimento #MeToo oltre la censura governativa
Dalla fine di luglio, dozzine di donne cinesi hanno affidato ai social network le loro storie di molestie e abusi sessuali. Tra gli accusati vi sono personaggi di spicco del mondo dello spettacolo e della televisione, allenatori sportivi, figure del mondo accademico e importanti giornalisti. Ma non solo: anche Shi Xuecheng, monaco e presidente dell’associazione buddhista cinese, l’organo legato al partito comunista che controlla la vita e le attività della religione buddhista nel Paese, è stato accusato di violenze sessuali e ha dovuto lasciare i suoi incarichi. La risposta delle autorità centrali non si è fatta attendere e la censura governativa ha cercato di mettere a tacere l’ondata di recriminazioni. Il diffondersi del movimento #MeToo all’interno della Repubblica Popolare è mal visto dai vertici del partito, che, un po’ per il permanere di valori tradizionali che vogliono la donna sostanzialmente sottomessa all’uomo, un po’ per paura che gli scandali possano raggiungere membri di alto rango e intaccare il potere dell’establishment comunista, temono il dilagare delle accuse e la presa di coscienza da parte della popolazione di una situazione che, da quanto emerge dalle denunce, interessa ogni ambito della vita lavorativa, familiare e sociale.
Ciononostante, le donne cinesi, ora che la scintilla è stata accesa, non sembrano intenzionate a fermarsi e hanno già trovato nuove strade per sfuggire alla censura. Oltre al salvare screenshot degli articoli e delle denunce pubblicati online prima che vengano oscurati, in modo da poter continuare a farli circolare attraverso differenti canali, esse hanno iniziato ad usare anche le emoji, quelle raffiguranti la ciotola di riso e il coniglio, per manifestare la propria adesione al movimento #MeToo, grazie a un ingegnoso gioco di omofonie. Gli ideogrammi per “riso” e “coniglio” in cinese mandarino si pronunciano, infatti, “mi tu”.
Le donne asiatiche alla riconquista del proprio corpo e della propria dignità
In Estremo Oriente, il sorprendente sviluppo economico degli ultimi cinquant’anni non è andato di pari passi con il progredire dell’eguaglianza tra i sessi. Principi e valori tradizionali sono ancora fortemente radicati nel modo di vivere e di sentire e i diritti delle donne vengono spesso strumentalizzati, tutelati a volte più come parte di un gioco politico e accantonati poi quando emergono interessi maggiori, in un contesto che rimane tutt’oggi marcatamente maschilista. Il corpo della donna continua a essere considerato come una sorta di oggetto che l’uomo si sente libero di utilizzare a proprio piacimento. In una tale situazione, la lotta per la parità di genere e contro le violenze e gli abusi sessuali è nata e sta procedendo nell’unico modo possibile: spinta dalle donne, dal loro stesso desiderio di vedersi riconosciute una dignità troppo spesso violata, e mossa da una sempre più profonda coscienza del proprio potenziale e di ciò che per diritto dovrebbe loro spettare.
Alessia Biondi
Fonte immagine di copertina: independent.co.uk
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