“Una ragazza non possiede altro che il suo velo e la sua tomba”. Questo vecchio proverbio della cultura saudita non lascia spazio all’immaginazione, ritrae il mondo femminile arabo senza troppi fronzoli.
Amnesty International e Human Rights Watch, da anni denunciano la condizione delle donne che vivono in Arabia Saudita, senza però ottenere alcun risultato concreto e difatti, continuano a essere inesistenti molte delle libertà fondamentali, globalmente riconosciute attraverso la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Un piccolo, si fa per dire, passo in avanti sembra esser avvenuto nell’ultimo anno: a settembre 2017, il principe Mohammed Bin Salaman ha annunciato la caduta del divieto di guida per tutte le donne saudite.
Una vittoria per l’umanità? Sì, ma a metà.
Dopo l’annuncio della storica svolta, il ban è definitivamente caduto il 24 giugno dell’anno corrente, portando via con sé il titolo di ultimo paese al mondo a non riconoscere il diritto di guida alle donne. Sulla scelta, frutto di un elaborato programma di riforme contenute nel piano “Vision 2030”, fortemente volute dall’erede al trono saudita, hanno avuto poco impatto le numerose proteste delle attiviste spesso punite col carcere: il nuovo diritto per le donne ha poco a che fare con l’apertura mentale araba, ancora molto distante dagli standard occidentali.
In quest’ottica occorre, infatti, precisare che, nonostante questa concessione della famiglia reale, le limitazioni alle libertà femminili sono ancora spaventosamente numerose. Nel 2018 le donne saudite non hanno diritto a un processo equo, possono godere solo di metà eredità rispetto ai fratelli maschi, devono avere il permesso del loro “guardiano” per sposarsi, non possono aprire un proprio conto bancario, non possono operarsi senza autorizzazione di un parente maschio, non possono scegliere cosa indossare, interagire con l’altro sesso, allontanarsi da casa e viaggiare senza autorizzazione.
Assurdo, ma non troppo se si pensa che la pena di morte, come purtroppo anche in molti paesi occidentali, viene spesso applicata senza l’esecuzione di un regolare processo.
Il rispetto dei diritti umani, infatti, non sempre si allinea con la legge suprema dello stato: la legge islamica, ovvero la sharia, la dottrina fondamentalista del Corano da cui tutto dipende.
La manovra di pinkwashing, dunque, è sicuramente un passo in avanti, ma a dettar legge rimarrà sempre la religione che, come è noto, è uno degli aspetti più peculiari del paese, e così la disparità di genere.
La licenza alla guida femminile è essenzialmente una mossa d’immagine del governo. “Probabilmente l’Arabia Saudita vuole dare un’apparenza di modernizzazione al mondo, in particolare agli Stati Uniti, con cui ha un ottimo rapporto da quando c’è Trump al potere” afferma in un’intervista Michela Fontana, autrice di “Nonostante il velo”, che ha vissuto due anni a Riad. “C’è la volontà di sedersi al tavolo con le potenze occidentali e non lo si può fare senza che le donne guidino”.
Non solo: da maggio 2017 l’Arabia è ufficialmente membro della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne; per quattro anni farà parte della rappresentanza dell’organismo ONU più impegnato nella lotta per la diseguaglianza di genere. Una scelta discutibile e assurda, come l’hanno definita molte ONG.
Non mancano, poi, le motivazioni economiche. Obiettivo del principe erede al trono è rendere progressivamente il proprio paese indipendente dal petrolio e il lavoro di tutti i sudditi è imprescindibile.
Il futuro sovrano ha, finalmente, capito che le donne possono essere un contributo concreto per l’economia. Ma lavorare significa spostarsi. Unire l’utile al dilettevole è stata una mossa astuta, e la più conveniente: mentre il paese si nasconderà dietro una fittizia accoglienza di valori occidentali, le donne sosterranno la crescita di una nazione stanca di dipendere dal mero oro nero.
L’industria automobilistica è quella che più si aspetta di avanzare, stimando di toccare i 30.000.000.000 di Riyal sauditi, circa 8 bilioni di dollari. Senza tener conto delle compagnie assicurative, meccanici e tutto il mercato che gira attorno alle quattro ruote e non solo ( la licenza di guida prevista riguarda anche moto e autobus).
Sul fatto che il 24 giugno 2018 sia una data memorabile non si discute: la caduta di uno dei più ostili tabù arabi è stato già celebrato con diverse foto entrate nella storia. Le donne arabe che si immortalano con la nuova e desiderata patente sono oramai diventate un simbolo di questo importante passaggio, come la famosa copertina che ritrae la principessa Hayfa bint Abdullah Al Saud a bordo di una decapottabile nel deserto, icona di una nuova epoca per le donne saudite.
Nel frattempo i religiosi polemizzano per la concessione eretica del principe ( il divieto di guida fu introdotto nel 1990 dal Gran Mufti, l’autorità religiosa più influente in Arabia) e gli attivisti protestano per le diverse donne ancora in prigione per aver lottato per il diritto alla guida.
Certo, lo stato arabo, si è visto, è un paese pieno di contraddizioni, un terreno minato per i diritti umani. Ma per lo meno ora le donne, ragazze, mamme, lavoratrici possono, in parte, guidare verso la loro libertà.
Annita De Biasi
Foto di copertina: TPI
L’emancipazione non è una conquista solo per le donne, è una vittoria per l’umanità!
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