L’electro-dance francese ha fatto scuola, questo è risaputo : tutto merito di due ragazzi che, nei primi anni Novanta, hanno conseguito i pieni voti per aver fatto egregiamente i loro “compiti per casa”. Si tratta ovviamente dei due stregoni fantascientifici della console Thomas Bangalter e Guy De Homem-Christo, che con il loro hype futuristico, in un’unione ad un sound rivoluzionario, hanno saputo attraversare le insidie tese lungo il loro percorso e diventare icone mondiali di stile e di moda ben al di là della ristrettezza del loro genere di iscrizione. Insidie tese dalla critica, che guardandoli dall’alto in basso, li ha bollati nei loro anni embrionali come “stupidi teppistelli”, la cui traduzione inglese è per l’appunto “Daft Punk”. Ma i due ragazzi non se la sono presa, anzi : dopo aver incassato senza livore, hanno preso al volo l’ignominiosa taccia per convertirla nel loro nom de plume. E da allora, la loro sorte è mutata immediatamente.
Cosa sono i Daft Punk? Un dio tutto fumo e tutto arrosto, capace di unire un marketing della propria immagine suggestivo e attraente, senza per questo rinunciare alla continua raffinazione della propria musica e alla profondità nelle loro hit, che superano la semplice fruizione usa e getta tipica del genere in cui sono inscritti con evidente ingombro. La loro capacità di abbinare motivi ossessivi e all’apparenza perfino ingenui con tematiche complesse e di serietà enorme con stile raffinato e citazionista è sottile e percepibile al pubblico più colto, anche grazie a video realizzati da grandi cineasti come Michel Gondry. Tutti hanno potuto ballare al ritmo di Around the World vent’anni orsono, ma non in molti hanno potuto captare, sotto il velame delle note, un messaggio di apertura cosmopolita e ostile ad ogni rivendicazione xenofoba e di chiusura internazionale. Così come non è facile trattenere i lucciconi vedendo le disavventure del povero uomo-cane protagonista del video di Da Funk, stritolato dall’indifferenza e dal disprezzo verso il diverso sempre in agguato nelle grandi metropoli contemporanee.
In secundis, è impossibile non apprezzare l’umiltà e il culto profuso dagli uomini del futuro verso i loro avi e precursori. Visibile per i sample della grande disco europea attinti a piene mani nei primi tre album, per essere attualizzati e rielaborati sotto le loro sapienti mani, il cui culmine è stato raggiunto nel quarto album con la monumentale intervista-canzone rivolta al decano dei compositori elettronici Giorgio Moroder. Il loro dialogo col passato si risolve, in quest’ultimo album, con la ripresa degli strumenti musicali più tradizionali, in un tentativo di spiazzare il pubblico e di richiamare la memoria del retaggio d’epoca.
Tuttavia, nessuno è perfetto, e i due cyborg hanno avuto il loro passo falso. Ma è veramente stato un tonfo? All’apparire del loro terzo album, Human After All, sia i loro devoti fan che i soloni della critica hanno obiettato con acredine e hanno decretato un flop commerciale, giudicando la texture dell’album troppo ripetitiva e inconsistente. Ma lor signori hanno ragione, e soprattutto, hanno ascoltato con la dovuta attenzione l’album?

Ci sono valide ragioni per definire l’album in questione come il più filosofico e più incisivo album della band gallica. Basta prestare orecchio e occhi ai singoli estratti e ai loro video di accompagnamento: le canzoni suonano come un j’accuse fiero e acceso contro la modernità, sempre più dominato dalla Tecnica e dall’omologazione. Una tecnologia invasiva e alienante, che rende l’uomo alla mercé dei potenti Distrattori di Massa moderni, straniero a sé stesso e privo di strumenti per esercitare la propria capacità critica. E conducono la loro requisitoria attraverso distorsioni vocali e suoni cavernosi e cupi, privi della piacevolezza del dittico di album precedenti, forse con un’inquietudine e una tenebrosità senza speranza. Probabilmente lo smacco ricevuto fu alla base della battuta d’arresto di otto anni, prima che la fenice risorgesse dalle ceneri. Nelle dieci tracce si realizza una discesa negli inferi ispirata ad un retropensiero transumanista che sfugge al nichilismo, in quanto la ragione portante è la denuncia. In Prime Time of your Life, i due dj mettono alla berlina la viralità dei media e della pubblicità, che priva l’uomo della capacità di sottrarsi alla massificazione delle mode e lo distoglie dell’esercizio della ragione critica. Un breve intermezzo di transizione, e si arriva, dopo una traccia che riproduce lo zapping distratto di un televisore, a Television Rules the Nation, che ripete la sua morale con un tamburo tribale che sottolinea la perentorietà e la disillusione del messaggio. Di traccia in traccia si arriva alla soluzione finale con Technologic, in cui la successione incessante di imperativi scandisce il tran tran della vita moderna, che avvolge l’uomo in una routine fatta di gesti elementari, con la conseguenza umiliante di deviarlo dalle sue infinite potenzialità.
Sarebbe ora di riportare alla luce questo album vituperato senza colpe, per dargli la giusta valutazione a mente lucida e con maggiore finezza di giudizio.
Enrico Frasca