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Le grandi navi smantellate a mani nude

Un litorale lungo e regolare, chilometri e chilometri di spiaggia, centinaia di cantieri di smantellamento. Centinaia di navi spiaggiate, decine e decine di carcasse abbandonate sulla sabbia e tutto attorno migliaia e migliaia di persone che, a mani nude, le fanno in pezzi per uno, due dollari al giorno. Questo è quanto accade tutti i giorni nelle spiagge di India, Bangladesh e Pakistan dove, secondo i dati raccolti dalla ONG Shipbreaking Platform, viene smantellato ben l’80% delle navi commerciali su scala globale in condizioni umani e ambientali drammatiche.

Centinaia di navi sulle spiagge dell’Asia

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© Tomaso Clavarino

Nicola Mulinaris, Communication and Policy Officer della ong che ha sede a Bruxelles ma rappresenta una rete di organizzazioni attive della difesa dei diritti umani e dell’ambiente, spiega che ogni anno, in media, 1000 navi giungono a fine vita. “Si tratta di un numero variabile che dipende da tanti fattori: lo stato di salute del settore marittimo, i prezzi che i cantieri di smantellamento possono offrire che includono il costo della manodopera, della gestione dei rifiuti, ma soprattutto il prezzo dell’acciaio che fluttua molto. Oggi le imprese di “riciclo” dei paesi dell’Asia meridionale offrono circa 500 dollari per tonnellata, mentre quelle di Cina e Turchia (che smantellano insieme circa il 18% delle navi) arrivano a 250 dollari. Di fatto, se un armatore oggi sceglie di vendere la sua nave in India, Bangladesh o Cina guadagna circa 2 o 3 milioni di dollari in più per ogni nave di stazza media.”

Il sistema, ben oliato nel corso degli anni, prevede che l’armatore non entri mai in contatto diretto con lo smaltitore, ma si avvalga dell’attività di alcune aziende che fanno da intermediari, i cosiddetti “cash buyer” che offrono una somma in contanti al proprietario e si assumono la responsabilità dell’ultimo viaggio. “Difficile, però, affermare che legalmente ed eticamente non sia responsabile l’armatore che non può non sapere che il prezzo che guadagna nasconde sfruttamento e danni ambientali.”

Il percorso delle navi è stato ben tracciato dalle ong attive sul campo, ma anche dalle autorità internazionali: una volta acquistate dal cash buyer, cambiano nome e bandiera, vengono registrate in paradisi fiscali e poi fatte arrivare sulle spiagge, nell’area intertidale soggetta alle maree che portano avanti e indietro rifiuti e avanzi delle navi.

Senza diritti, senza tutele

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© Tomaso Clavarino

È qui che prende avvio il processo di smantellamento vero e proprio che coinvolge migliaia di persone. 15.000 in Bangladesh dove gli oltre 140 siti di smantellamento sono concentrati in 15 chilometri di spiaggia lungo la costa di Sitakund, non lontano dalla città portuale di Chittagong. 10.000, con picchi fino a 40.000 nei periodi di lavoro più intenso, in India dove la spiaggia dello smaltimento è quella di Alang dove operato 50 aziende che controllano circa 170 siti. Tra le 10.000 e le 20.000 in Pakistan, impegnate nei 130 cantieri della spiaggia di Gadani.

La maggior parte di essi sono lavoratori migranti che si spostano sulla costa dall’entroterra solo per le stagioni lavorative. Una buona percentuale, addirittura il 20% in Bangladesh, è rappresentato da minori, “e stiamo parlando di bambini di 13/14 anni che sono costretti a lavorare in condizioni di estrema povertà e pericolo.

Non esistono tutele per questi lavoratori – spiega Mulinaris – non c’è rappresentanza sindacale efficace, non c’è sicurezza, non ci sono contratti che rispettino certi standard minimi. Le persone lavorano a turni fino a 12 ore, notturni compresi e, in Bangladesh guadagnano circa un dollaro al giorno”. Disastrosa è anche la questione delle condizioni abitative e di vita: spesso spiega il responsabile della ONG i lavoratori vivono in baracche fatiscenti, senza soldi nemmeno per acquistare viveri e beni di prima necessità.

“Senza dimenticare il fatto che non c’è un ospedale vicino a nessuna di queste spiagge, problema che spesso ha aggravato le conseguenze degli incidenti che spesso si verificano in cantiere”. Lo smantellamento, infatti, avviene senza alcuna protezione, utilizzando fiamme ossidriche e altri rudimentali strumenti per fare la nave a pezzi.

Rifiuti tossici per l’uomo e per l’ambiente

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© Tomaso Clavarino

Secondo l’ILO, International Labour Organization, occuparsi dello smantellamento delle imbarcazioni è il mestiere più pericoloso e lo sarebbe anche in condizioni “normali” per via della presenza di sostanze tossiche all’interno delle navi. “C’è amianto, PCB, TBT, mercurio, stagno, rame… tutte sostanze che, se rilasciate nell’ambiente o a contatto con esseri umani che non indossano protezioni, possono essere altamente nocive.”

Non mancano le questioni legate alla sicurezza: durante le operazioni, spiegano dalla Shipbreaking Platform, i pezzi appena tagliati vengono fatti cadere al suolo, assecondando la forza di gravità e provocando spesso incidenti, anche involontari. “Problema nel problema è che non solo non c’è un ospedale vicino, ma l’area di smantellamento è talmente instabile per cui i mezzi di soccorso faticano ad avvicinarsi davvero alle navi, ritardando di molto i soccorsi.”

E questo è ciò che accade a Sitakund, Alang e Gadami dove tutto l’ambiente già risente delle conseguenze dell’inquinamento incontrollato. “Riciclare le navi a fine vita per ricavarne acciaio non è, ovviamente, una pratica negativa, tutt’altro! È importante sapere che più del 90% della nave si può riutilizzare essendo la nave costituita principalmente da acciaio. Il problema è quello che accade al resto, ai mobili che vengono rivenduti, ai rifiuti tossici che non vengono smaltiti in maniera pulita e sicura. Spesso vengono semplicemente abbandonati sulla spiaggia, dietro ai cancelli dei cantieri, oppure gettati in mare.”

Proprio l’acciaio “recuperato” attraverso lo smantellamento navale rappresenta il 40% di tutto quello riciclato in Bangladesh, “questo dato già ci spiega – aggiunge Mulinaris – quanto sia fondamentale per l’economia del paese mantenere il sistema in piedi e intervenire su questo business controllato, di fatto, da un ristretto gruppo di famiglie.”

Eppure alternative sicure e pulite esistono nel mondo, ma anche nell’Asia meridionale. Negli anni 90, per esempio, grazie a degli investimenti giapponesi, erano stati predisposti quattro bacini di carenaggio a secco in India, non lontano dalla spiaggia di Alang, ma non sono mai entrati in funzione perché, secondo gli attivisti locali, lo smantellamento a mani nude costa di meno.

Quali responsabilità per l’Italia e l’Europa?

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© Tomaso Clavarino

Le navi smantellate in Asia Meridionale provengono da tutto il mondo, Unione Europea compresa che, però, nel 2013 si è dotata di un regolamento sul riciclaggio navale che entrerà in vigore a dicembre 2018. La Commissione Europea, secondo la nuova normativa, stila una lista di siti puliti e sicuri per procedere con lo smantellamento delle imbarcazioni che battono bandiera di un paese membro dell’UE. Al momento i cantieri sono 18, tutti sul territorio europeo, ma presto dovrebbero essere inclusi anche alcuni in Turchia, in CIna e negli Stati Uniti.

“Almeno sulla carta – commenta il Communication and policy officer della Shipbreaking Platform – è una buona norma: è la prima volta, infatti, che gli armatori hanno a disposizione uno strumento ufficiale per individuare i cantieri puliti e sicuri. Tuttavia è facile immaginare come, vendendo la nave ad un cash buyer, si possano aggirare le previsioni di legge.” Secondo Mulinaris, infatti, assisteremo ad un ulteriore calo delle navi con bandiera europea, senza che venga veramente posto fine alla situazione di India, Pakistan e Bangladesh.

Anche l’Italia è coinvolta: sono più di 100 le navi italiane inviate sulle spiagge asiatiche negli ultimi 5 anni. “Tra gli armatori, ci sono aziende come Grimaldi, Vittorio Bogazzi, SAIPEM, Cafiero Mattioli… La prassi è sempre la stessa per cui si nasconde alle autorità portuali l’effettiva meta finale della nave, ma resta il fatto che si tratta di transazioni piuttosto torbide, alcune in chiara violazione delle leggi internazionali ed europee in tema di esportazione di rifiuti tossici.”

Qualcosa, anche dal punto di vista giurisdizionale, si sta muovendo: la compagnia olandese Seatrade è stata condannata a pagare una multa superiore al milione di euro per aver fatto demolire alcune navi sulle spiagge indiane. Così come proliferano le certificazioni di sostenibilità basate sulla Convenzione di Hong Kong non ancora in vigore: secondo Mulinaris, si tratta di indicazioni da prendere con le pinze, spesso pagate dai cantieri stessi impegnati in operazioni di greenwashing.

Da sempre attiva è la società civile in India, Pakistan e Bangladesh. La stessa ong belga è parte di un network che include realtà locali come, per fare solo alcuni esempi, la Bangladesh Environmental Lawyers Association, la Young Power in Social Action, l’indiana Toxics Link, Center for the Rule of Law di Islamabad. Tutte realtà impegnate sul campo nella tutela dei lavoratori e, anche, nell’ambito dello sfruttamento dei minori: “il punto – riflette Mulinaris – è che anche la maggior parte delle persone, soprattutto in India, non sa che esiste questa industria ad Alang perché tutto è mantenuto nascosto e l’accesso è praticamente vietato a chiunque, che si tratti di un avvocato, di un ricercatore, di un giornalista, ma anche di un semplice curioso.”

Silenzio e omertà circondano, dunque, le condizioni di puro sfruttamento dei lavoratori e di inquinamento tossico sull’ambiente che caratterizzano lo smaltimento delle navi in India, Pakistan e Bangladesh. “Sono certo – conclude Mulinaris – che se qualcuno avanzasse la proposta di smantellare un paio di petroliere sulla spiaggia di Lignano Sabbiadoro o di Rimini, nessuno lo permetterebbe. Ma dato che accade lontano, in paesi vulnerabili, nessuno fa niente e, al contrario, si dipinge lo sfruttamento come qualcosa di positivo per la comunità poiché porta “lavoro”. La realtà è che nemmeno le popolazioni locali sono d’accordo con questo tipo di sfruttamento che ha tutte i connotati di un vero e proprio colonialismo tossico, pericoloso e insostenibile.”

Angela Caporale

“A mani nude”, la mostra a Udine per Vicino/Lontano

In occasione del festival Vicino/Lontano, inaugura venerdì 11 maggio alle ore 18.30 presso lo Spazio Make di Udine la mostra “A mani nude” che presenta alcune fotografie scattate sulle spiagge in India e Bangladesh. Si tratta di un estratto dal webdoc “A mani nude”, pubblicato in Italia sul Corriere della Sera.

L’esposizione, ad ingresso gratuito, sarà visitabile fino al 26 maggio ed è realizzata con il sostegno dello European Journalism Centre, Greens/EFA e Legambiente.

 

Orari

durante vicino/lontano

giovedì 10 maggio: 16.00 – 20.00

da venerdì a domenica: 10.00 – 20.00

dopo il festival

dal giovedì alla domenica 17.30 – 19.30

 

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