Le grandi navi smantellate a mani nude

Le grandi navi smantellate a mani nude

, decine e decine di carcasse abbandonate sulla sabbia e tutto attorno migliaia e migliaia di persone che, a mani nude, le fanno in pezzi per uno, due dollari al giorno. Questo è quanto accade tutti i giorni nelle spiagge di , viene smantellato ben l’80% delle navi commerciali su scala globale in condizioni umani e ambientali drammatiche. , Communication and Policy Officer della ong che ha sede a Bruxelles ma rappresenta una rete di organizzazioni attive della difesa dei diritti umani e dell’ambiente, spiega che . “Si tratta di un numero variabile che dipende da tanti fattori: lo stato di salute del settore marittimo, i prezzi che i cantieri di smantellamento possono offrire che includono il costo della manodopera, della gestione dei rifiuti, ma soprattutto il prezzo dell’acciaio che fluttua molto. Oggi le imprese di “riciclo” dei paesi dell’Asia meridionale offrono circa , mentre quelle di Cina e Turchia (che smantellano insieme circa il 18% delle navi) arrivano a 250 dollari. Di fatto, se un armatore oggi sceglie di vendere la sua nave in India, Bangladesh o Cina guadagna circa 2 o 3 milioni di dollari in più per ogni nave di stazza media.” Il sistema, ben oliato nel corso degli anni, prevede che l’armatore non entri mai in contatto diretto con lo smaltitore, ma si avvalga dell’attività di alcune aziende che fanno da intermediari, i cosiddetti che offrono una somma in contanti al proprietario e si assumono la responsabilità dell’ultimo viaggio. “ Difficile, però, affermare che legalmente ed eticamente non sia responsabile l’armatore che non può non sapere che il prezzo che guadagna nasconde sfruttamento e danni ambientali.” Il percorso delle navi è stato ben tracciato dalle ong attive sul campo, ma anche dalle autorità internazionali: una volta acquistate dal , cambiano nome e bandiera, vengono registrate in paradisi fiscali e poi fatte arrivare sulle spiagge, nell’area intertidale soggetta alle maree che portano avanti e indietro rifiuti e avanzi delle navi. È qui che prende avvio il processo di smantellamento vero e proprio che coinvolge migliaia di persone. dove gli oltre 140 siti di smantellamento sono concentrati in 15 chilometri di spiaggia lungo la costa di Sitakund, non lontano dalla città portuale di Chittagong. 10.000, con picchi fino a 40.000 nei periodi di lavoro più intenso, in India dove la spiaggia dello smaltimento è quella di Alang dove operato 50 aziende che controllano circa 170 siti. che si spostano sulla costa dall’entroterra solo per le stagioni lavorative. Una buona percentuale, addirittura il 20% in Bangladesh, è rappresentato da , “e stiamo parlando di bambini di 13/14 anni che sono costretti a lavorare in condizioni di estrema povertà e pericolo. – spiega Mulinaris – non c’è rappresentanza sindacale efficace, non c’è sicurezza, non ci sono contratti che rispettino certi standard minimi. Le persone lavorano a turni fino a 12 ore, notturni compresi e, in Bangladesh guadagnano circa un dollaro al giorno”. Disastrosa è anche la questione delle condizioni abitative e di vita: spesso spiega il responsabile della ONG i lavoratori vivono in baracche fatiscenti, senza soldi nemmeno per acquistare viveri e beni di prima necessità. vicino a nessuna di queste spiagge, problema che spesso ha aggravato le conseguenze degli incidenti che spesso si verificano in cantiere”. Lo smantellamento, infatti, avviene , utilizzando fiamme ossidriche e altri rudimentali strumenti per fare la nave a pezzi. Secondo l’ILO, International Labour Organization, occuparsi dello smantellamento delle imbarcazioni è il e lo sarebbe anche in condizioni “normali” per via della presenza di all’interno delle navi. “C’è amianto, PCB, TBT, mercurio, stagno, rame… tutte sostanze che, se rilasciate nell’ambiente o a contatto con esseri umani che non indossano protezioni, possono essere altamente nocive.” Non mancano le questioni legate alla sicurezza: durante le operazioni, spiegano dalla Shipbreaking Platform, , assecondando la forza di gravità e provocando spesso incidenti, anche involontari. “Problema nel problema è che non solo non c’è un ospedale vicino, ma l’area di smantellamento è talmente instabile per cui i mezzi di soccorso faticano ad avvicinarsi davvero alle navi, dove tutto l’ambiente già risente delle conseguenze dell’inquinamento incontrollato. “Riciclare le navi a fine vita per ricavarne acciaio non è, ovviamente, una pratica negativa, tutt’altro! È importante sapere che più del 90% della nave si può riutilizzare essendo la nave costituita principalmente da acciaio. Il problema è quello che accade al resto, ai mobili che vengono rivenduti, ai rifiuti tossici che non vengono smaltiti in maniera pulita e sicura. Spesso vengono semplicemente abbandonati sulla spiaggia, dietro ai cancelli dei cantieri, oppure gettati in mare.” Proprio l’acciaio “recuperato” attraverso lo smantellamento navale rappresenta il 40% di tutto quello riciclato in Bangladesh, “questo dato già ci spiega – aggiunge Mulinaris – quanto sia fondamentale per l’economia del paese mantenere il sistema in piedi e intervenire su questo business controllato, di fatto, da un ristretto gruppo di famiglie.” nel mondo, ma anche nell’Asia meridionale. Negli anni 90, per esempio, grazie a degli investimenti giapponesi, erano stati predisposti quattro bacini di carenaggio a secco in India, non lontano dalla spiaggia di Alang, ma non sono mai entrati in funzione perché, secondo gli attivisti locali, Le navi smantellate in Asia Meridionale provengono da tutto il mondo, Unione Europea compresa che, però, nel 2013 si è dotata di un che entrerà in vigore a dicembre 2018. La Commissione Europea, secondo la nuova normativa, stila una per procedere con lo smantellamento delle imbarcazioni che battono bandiera di un paese membro dell’UE. Al momento i cantieri sono 18, tutti sul territorio europeo, ma presto dovrebbero essere inclusi anche alcuni “Almeno sulla carta – commenta il Communication and policy officer della Shipbreaking Platform – è una buona norma: è la prima volta, infatti, che gli armatori hanno a disposizione uno strumento ufficiale per individuare i cantieri puliti e sicuri. Tuttavia è facile immaginare come, vendendo la nave ad un cash buyer, si possano .” Secondo Mulinaris, infatti, assisteremo ad un ulteriore calo delle navi con bandiera europea, senza che venga veramente posto fine alla situazione di India, Pakistan e Bangladesh. , ci sono aziende come Grimaldi, Vittorio Bogazzi, SAIPEM, Cafiero Mattioli… La prassi è sempre la stessa per cui si nasconde alle autorità portuali l’effettiva meta finale della nave, ma resta il fatto che si tratta di transazioni piuttosto torbide, alcune in chiara violazione delle leggi internazionali ed europee in tema di esportazione di rifiuti tossici.” Qualcosa, anche dal punto di vista giurisdizionale, si sta muovendo: la compagnia olandese Seatrade è stata per aver fatto demolire alcune navi sulle spiagge indiane. Così come proliferano le non ancora in vigore: secondo Mulinaris, si tratta di indicazioni da prendere con le pinze, spesso pagate dai cantieri stessi impegnati in operazioni di Da sempre attiva è la società civile in India, Pakistan e Bangladesh. La stessa ong belga è parte di un network che include realtà locali come, per fare solo alcuni esempi, la Bangladesh Environmental Lawyers Association, la Young Power in Social Action, l’indiana Toxics Link, Center for the Rule of Law di Islamabad. Tutte nella tutela dei lavoratori e, anche, nell’ambito dello sfruttamento dei minori: “il punto – riflette Mulinaris – è che anche la maggior parte delle persone, soprattutto in India, ad Alang perché tutto è mantenuto nascosto e l’accesso è praticamente vietato a chiunque, che si tratti di un avvocato, di un ricercatore, di un giornalista, ma anche di un semplice curioso.” sull’ambiente che caratterizzano lo smaltimento delle navi in India, Pakistan e Bangladesh. “Sono certo – conclude Mulinaris – che se qualcuno avanzasse la proposta di smantellare un paio di petroliere sulla spiaggia di Lignano Sabbiadoro o di Rimini, nessuno lo permetterebbe. Ma e, al contrario, si dipinge lo sfruttamento come qualcosa di positivo per la comunità poiché porta “lavoro”. La realtà è che nemmeno le popolazioni locali sono d’accordo con questo tipo di sfruttamento che ha tutte i connotati di un vero e proprio colonialismo tossico, pericoloso e insostenibile.” , inaugura venerdì 11 maggio alle ore 18.30 presso lo Spazio Make di Udine la mostra “A mani nude” che presenta alcune fotografie scattate sulle spiagge in India e Bangladesh. Si tratta di un estratto dal webdoc “A mani nude”, pubblicato in Italia sul L’esposizione, ad ingresso gratuito, sarà visitabile fino al 26 maggio ed è realizzata con il sostegno dello European Journalism Centre, Greens/EFA e Legambiente.