Cosa si pensa nel segreto della cabina elettorale? Quali sono le idee, le opinioni che si sono incanalate della coscienza dell’individuo fino a formulare una decisione espressa tramite un segno su un foglio di carta?
Brexitannia, documentario di Timothy George Kelly, si pone l’obiettivo, ambizioso per quanto lontano dalla narrazione politica odierna, di ascoltare le opinioni di chi ha votato, in un senso o nell’altro, per il referendum sulla permanenza nell’Unione Europea del Regno Unito nel giugno 2016. Il documentario assume rilevanza quasi simbolica per la sua data di uscita: il 22 marzo 2017. Probabilmente si tratta quindi della prima opera sul tema Brexit, ma soprattutto bisogna tenere a mente che una settimana dopo il governo britannico avrebbe deciso di invocare l’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea, iniziando con Bruxelles le tortuose negoziazioni per l’uscita. A posteriori, si può considerare Brexitannia come l’ideale chiusura del periodo di Brexit che ha effettivamente riguardato la popolazione britannica, ossia quella del voto, prima che la palla passasse del campo della diplomazia e delle bozze sottolineate in giallo e verde.
Ascolto più che indagine dunque, e l’intento del regista è piuttosto chiaro sin da subito: le persone intervistate nella prima ora del documentario sono rigorosamente senza nome, riprese in bianco e nero e in contesti vuoti. L’individuo, e la sua idea, è al centro della scena, spesso in piedi, non interagisce quasi mai con altri: una cabina elettorale “a posteriori” appunto, ma con una telecamera in più. Con un’operazione molto intelligente, la strumentalizzazione pre e post elettorale è stata eliminata dall’equazione del documentario (per esempio l’unico partito a essere nominato, ma solo per presentare uno specifico profilo, è l’UKIP): quel che rimane non è la massa informe pronta ad essere vivisezionata dagli opinionisti, ma piuttosto un gruppo di individui portatori del diritto di voto e della dignità che ne consegue.
Sarebbe tuttavia un errore limitare Brexitannia a un insieme sconnesso di spezzoni di intervista, anzi, la conduzione del documentario progressivamente allarga il suo raggio di analisi.
Inizia con numerosi riferimenti all’Unione Europea e alla burocrazia di Bruxelles, introducendo il tema della sovranità e dell’espressione democratica. Molte delle persone intervistate si definiscono freedom lovers, in un qualche modo oppressi da regolamenti impattanti sulle loro vite, ma emessi da un’autorità lontana, a cui l’uomo comune ha scarse possibilità di far arrivare la propria voce. Con il passare dei minuti si nota però che i rimandi allUnione Europea si fanno sempre più scarsi e altri temi sembrano prendere il sopravvento.
Dapprima la protesta contro una classe politica giudicata arrogante e colpevole di non capire che la massa non è materia plasmabile a piacimento, ma appunto una collettività che nel gioco democratico ha il diritto/dovere di reagire. In seguito entra in scena il tema dell’immigrazione, che molti riconoscono come il principale argomento che ha guidato la campagna elettorale. Si innesta in questo momento il dibattito sul significato dell’identità e cosa voglia dire in realtà essere britannico. Accanto a frasi che siamo abituati a sentire anche da noi (“Si tratta di un’invasione.” “Non c’è spazio per tutti.” “Dove sono le donne e i bambini? Io vedo solo uomini in buona salute.” “Siamo una nazione che dona, dona,dona, ma le risorse sono finite.”) e a un patriottismo un po’ nostalgico (“La Gran Bretagna merita di essere una grande nazione.”) si intrecciano storie differenti, che mostrano come le generalizzazioni appiattiscano la realtà: accanto a racconti di storie di vero razzismo (la famiglia di colore insultata il giorno dopo il voto) si trovano anche profili inaspettati come l’immigrato polacco che avrebbe votato Leave, o come i genitori di una ghanese di seconda generazione che hanno effettivamente fatto ciò. Ne deriva un’immagine delle aberrazioni possibili quando i diritti umani individuali e i diritti collettivi sono costretti a competere.
La chiave di lettura del documentario sta nel suo impegno a cercare di trovare nelle parole degli intervistati le cause ultime del conservatorismo che sta attraversando la società britannica (e tutto il mondo Occidentale). Questo può avere manifestazioni razziste, identitarie o semplicemente può manifestarsi in episodi di chiusura verso l’altro. In ogni caso, il punto comune è la paura, reazione naturale e comprensibile alla lucida percezione di un declino economico cui non si è trovata una soluzione. La generazione JAM (Just about Managing), le vittime delle retribuzioni sempre più basse, gli orfani dell’industria pesante, i superqualificati e, più in generale, tutti quelli che vedono la propria posizione economica gradualmente deteriorarsi: per molte di queste persone l’opzione dell’uscita dall’Unione Europea ha rappresentato un’opportunità per dare una svolta alla realtà, poco importa se l’Europa non sia in realtà la causa di tutti i mali britannici. Ci si spinge addirittura oltre, presentando sfide potenziali del futuro, come ad esempio l’automazione del lavoro, che molti vedono come il prossimo problema / capro espiatorio per i lavoratori che verranno.
La seconda, più breve, parte di Brexitannia è dedicata al parere degli esperti, come contrasto con la voce dell’uomo comune: l’analisi che ne esce è quella, non molto originale, dei limiti del neoliberismo moderno in termini di partecipazione popolare, stritolata dalle privatizzazioni e dalle mercificazione di ogni aspetto della vita quotidiana, e dei limiti ancora più grandi del progressismo contemporaneo, accusato di essere incapace di svincolarsi dall’idea del ritorno a una società capitalista “felice” come quella degli anni ’60. Un’aggiunta più strutturata a quello che le voci del paese hanno già saputo, in qualche modo, spiegare allo spettatore.
Roberto Mantero
Fonte immagine di copertina: ecnmy.org