“Stranger in Paradise”, o sulla relazione di potere tra Europa e migranti

Muovendosi tra il documentario e la finzione, Guido Hendrikx realizza un film che mira a farci riflettere sulla relazione di potere tra Europa e migranti. Il regista olandese mette in scena, in un’aula scolastica in Sicilia, l’incontro tra dei richiedenti asilo e un insegnante. Le persone nell’aula sono veri richiedenti asilo che Hendrikx ha selezionato prima di iniziare a girare, mentre l’insegnante è l’attore belga Valentijn Dhaenens.

Forse, prima che lo spettatore inizi a vedere il film, sarebbe meglio fornirgli un manuale d’uso. Secondo l’enciclopedia Treccani un documentario è un “Film, di lunghezza variabile, informativo o istruttivo su avvenimenti, luoghi, attività, senza aggiunta di elementi inventivi o fantastici”. La questione è quindi lampante, dato che, come si è detto, l’autore utilizza elementi fittizi. Il consiglio è quello di prendere questo film per quello che è, ovvero una simulazione. Attenzione però a non confondere i monologhi dell’insegnante con la realtà dei fatti. Quello che il direttore ha cercato di fare è riassumere il discorso di destra, di sinistra e la politica migratoria dell’Unione Europea in poche parole. Bisogna però prendere queste parole con le pinze e non farne una verità. Fatta questa premessa, passiamo al film vero e proprio.

Il Vecchio Continente è rappresentato dall’insegnante che, durante i tre atti in cui è diviso il documentario, rappresenta tre distinte facce dell’attitudine europea nei confronti dei migranti.

Durante i primi minuti, un prologo, accompagnato da un avvolgente intermezzo musicale, ci mostra attraverso immagini d’archivio e la profonda ed emozionante voce di Dhaenens qual è la storia dei rifugiati in Europa. Poi il narratore ci dice che ci presenterà l’Europa. Si alza il sipario ed ha inizio il primo atto di questa tragedia.

Nel primo atto, in cui spiega a loro come stanno le cose, l’insegnante rappresenta la parte più xenofoba e razzista della nostra società. L’insegnante spiega ai migranti, definiti come “cacciatori di fortuna”, perché l’Europa non è quel paradiso che probabilmente molti di loro speravano di trovare. A quanto pare ogni immigrato costerebbe all’Unione Europea 26.000 euro durante il primo anno. Facendosi aiutare dai richiedenti asilo a fare somme, sottrazioni e divisioni, l’insegnante calcola qual è l’onere finanziario che l’arrivo dei migranti sta imponendo sui cittadini europei. I migranti lo guardano attoniti e con sguardo interrogativo. La soluzione? Tornate a casa e “cercate di costruire il vostro stato sociale”. Alle obiezioni dei presenti, alla loro voglia di trovare un lavoro e crearsi una nuova vita l’insegnante risponde dicendo che in generale il 55% delle persone provenienti dall’Africa non lavoreranno mai in Europa e che non riusciranno mai ad integrarsi a causa della loro religione e cultura. Il discorso dell’insegnante è volutamente forte e provocatorio e finisce con una dichiarazione che non ammette repliche: “Non venite qui, non vi vogliamo qui. Non vi possiamo gestire”.

La voce di Neil Young che canta Expecting to fly ci introduce al secondo atto, in cui spiega a loro come stanno le cose (di nuovo). L’insegnante incarna ora quell’Europa paladina del rispetto dei diritti umani, regina dell’accoglienza e piena di sensi di colpa da sanare. I migranti sono definiti come esploratori, avventurieri, pionieri, persone coraggiose colpevoli solo di essere nate nella parte più sfortunata del mondo. Non mancano i numeri, ma questa volta indicano il numero di morti nel mediterraneo, 3771 nell’ultimo anno, come a marcare bene la differenza di prospettiva delle due posizioni. Gli europei, invece, sono “nati ricchi” e devono la loro condizione in parte al loro passato coloniale. La soluzione della tragedia sembra ora nelle mani degli europei, che dovrebbero solo avere il coraggio di rimuovere i confini tra l’Europa, l’Africa e il Medio Oriente, e finalmente approfittare dell’enorme potenziale economico che portano con sé i migranti. In questo nuovo mondo senza confini potremo tutti “prosperare ed essere felici”.

Il terzo atto, invece, in cui si attiene alle regole, rappresenta la realtà dei fatti, ovvero la complessa politica migratoria europea che sembra quasi essere uno di quei quiz televisivi nel quale vince chi riesce a rispondere correttamente a più risposte, ed è infatti definita dalla voce narrante come il “gioco dell’immigrazione”. La raffica di domande ha inizio e gli immigranti iniziano ad essere scartati senza un briciolo d’umanità. Una sola risposta li potrà definire come migranti economici o provenienti da un paese sicuro, e per loro il gioco sarà finito.

Questa fase si conclude e la voce di Leonard Cohen – che dice It’s hard to hold the hand of anyone who is reaching for the sky just to surrender – aggiunge pathos a tutto quello che abbiamo appena visto. L’ultima scena è quasi surreale, un incontro casuale tra l’attore e alcuni migranti in cui si parla del film, di dove verrà trasmesso e di quanto è costato.

SIP-4
Fonte: CineAgenzia

Rimangono impressi gli sguardi dei richiedenti asilo che esprimono sconforto, gioia, sollievo, rabbia o speranza. Rimangono impresse, sopratutto, le parole dei primi due atti. È inevitabile iniziare a interrogarsi rispetto a quali siano le parole che rispecchiano maggiormente la posizione di ognuno di noi. Se l’obiettivo di Hendrikx era farci riflettere, il film ci riesce fino in fondo. La risposta a qualsiasi quesito che sorga dopo la visione sta in ognuno di noi. Ammesso che ci sia davvero un dilemma morale da risolvere. Forse Hendrikx una risposta ce l’ha e sta proprio nell’assurdo siparietto dell’epilogo. Forse è tutta un’assurdità e la risposta è solo una: affrontare la questione con umanità.

Sabrina Mansutti

@sabrinamansutti

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