Schiavi contemporanei al servizio dello sport

Quando il 21 novembre 2022 la cerimonia di inaugurazione dei mondiali di calcio in Qatar avrà l’onore di presentare al mondo l’immagine più bella del Paese, quando l’arbitro decreterà finalmente l’avvio della prima gara, ciò che in quegli istanti rimarrà impresso nella memoria di milioni di telespettatori saranno essenzialmente coreografie, canzoni, colori, l’esaltazione per l’inizio di un evento tanto atteso, l’impazienza e l’aspettativa per l’esordio della propria nazionale. Probabilmente in pochi dedicheranno un pensiero verso coloro che avranno reso possibile il verificarsi di uno scenario tanto entusiasmante, verso i sacrifici e le sofferenze che negli anni avranno dovuto patire per renderlo possibile. Non sceicchi, ma operai immigrati a basso costo, senza alcun diritto, sempre in pericolo di vita, senza una via di fuga dallo sfruttamento, costretti a sopravvivere per lavorare, solo la tenacia di andare avanti.

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Fonte: pbs.twimg.com

Non lavoratori, ma schiavi del XXI secolo: Qatar 2022

I diritti e le libertà fondamentali non esistono per i lavoratori in Qatar, siano essi poveri immigrati o professionisti altamente retribuiti”. Fu questa una delle prime considerazioni pronunciate nella prefazione del rapporto sullo sfruttamento dei lavoratori in Qatar pubblicato nel 2014 dall’ITUC (International Trade Union Federation), la più grande federazione sindacale al mondo. Il rapporto, soffermandosi a più riprese sulla specifica esperienza organizzativa dei mondiali di calcio del 2022, mise in luce come il Paese designato dalla FIFA (Fédération Internationale de Football Association) alla gestione di uno dei più importanti eventi sportivi globali, continuasse a perpetrare una moderna forma di schiavitù nei confronti di migliaia di lavoratori immigrati. Una forma di schiavitù che ancora oggi si manifesta in tutto il suo squallore, nonostante le continue denunce nel corso degli ultimi anni da parte di importanti ONG, come Amnesty International e Human Rights Watch.

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Fonte: indipendent.co.uk

Si chiama kafala, ed è il sistema che conferisce ai datori di lavoro un totale controllo sui salari e sulle condizioni lavorative, oltre al potere di rifiutare richieste di cambio di lavoro, di confiscare il passaporto e di impedire il rilascio del permesso di espatrio. I comuni lavoratori bangladesi, indiani, nepalesi che raggiungono la piccola penisola del Golfo Persico in cerca di un impiego, sperando di poter guadagnare più di quanto non guadagnino in patria, vengono convinti da “reclutatori” che in Qatar avranno l’opportunità di lavorare per posizioni prestigiose e potranno realizzare molti dei loro sogni. Del resto, il Qatar è un Paese ricco e si tratta di lavorare per la messa in opera di un mondiale di calcio, un evento che sarà seguito da milioni di spettatori in tutto il mondo, cosa potrebbe andare storto?

Arrivano pieni di speranza nel luogo di lavoro e presto si accorgono che tutto quello che gli era stato riferito non corrisponde a realtà. Dovranno guadagnare la metà di quanto preventivato come operai nella costruzione di stadi, non come impiegati. Per di più sotto il sole cocente del Qatar, che porta spesso a registrare i 50°C, senza protezioni, senza alcun tipo di assicurazione, per 12 ore al giorno, sei giorni su sette. Capiscono che la commissione per il reclutamento è molto più costosa di quanto pattuito, che i passaporti verranno loro presto confiscati, e che non potranno cambiare lavoro o lasciare il Paese per andare a trovare la famiglia. Capiscono che dovranno passare il poco tempo libero quotidiano per riposare in piccoli e squallidi alloggi, racchiusi all’interno di “campi per lavoratori” noti per le scarse condizioni igienico-sanitarie. Capiscono, di fatto, di essere stati raggirati, e di essere intrappolati in un sistema di sfruttamento dal quale difficilmente riusciranno a sottrarsi, se non tenendo diligentemente fede al loro contratto di lavoro.

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Fonte: pinimg.com

Le denunce di Amnesty International e Human Rights Watch

Nel 2016 Amnesty International condannò la “scioccante indifferenza” della FIFA nei confronti dello sfruttamento del lavoro migrante impiegato nella costruzione degli impianti per i mondiali del 2022 in Qatar. Tra le tante forme di abuso che il suo rapporto denunciava, non già citati, c’erano: “la mancanza di retribuzione per diversi mesi, con ripercussioni economiche e psicologiche su lavoratori che talvolta avevano da saldare anche pesanti debiti personali in patria, il mancato rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, col rischio di essere arrestati ed espulsi in quanto lavoratori irregolari, le minacce di ritorsioni in caso di protesta per le condizioni di lavoro”.

Un anno dopo, il 23 maggio 2017, sempre Amnesty International pubblicò un nuovo rapporto, intitolatoMondiali Qatar: l’abuso dei lavoratori migranti resta diffuso, nel quale rimarcava come, nonostante la denuncia dell’anno precedente, nulla fosse cambiato e, anzi, nuove dinamiche fossero emerse, tra le quali imprenditori che pretendevano ore lavorative in eccesso, con metà di costoro che non permetteva giorni di riposo (una persona lavorò ininterrottamente per 148 giorni).

Anche Human Rights Watch (HRW), in un rapporto del 26 settembre 2017, mise in guardia sul pericolo cui tuttora vanno incontro migliaia di lavoratori migranti che operano negli impianti dei mondiali del 2022, sotto caldo e umidità atipici ad orari tutt’altro che salutari. L’organizzazione non solo raccomandò alle autorità dello Stato del Golfo di “applicare adeguate restrizioni nei confronti del lavoro all’aperto” ma, ancor più gravemente, esortò le stesse a chiarire quante delle centinaia di morti “naturali” o di morti “celate” che avvengono ogni anno siano effettivamente tali, e quante invece siano attribuibili a conseguenze del lavoro estremo. Lo scorso anno il governo del Qatar ha ammesso che 35 lavoratori sono morti “per lo più per   cadute, presumibilmente nei cantieri” ma senza tenere conto di altre centinaia di persone decedute per infarto o altre “cause naturali” sospette. 385 dei 520 lavoratori deceduti in Qatar nel 2012 sono morti “per cause che le autorità non hanno né spiegato né investigato” precisa HRW.

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Fonte: guim.co.uk

Nell’ottobre 2017 il Qatar annunciò, per l’ennesima volta, di voler riformare il sistema della kafala, attraverso una collaborazione con l’ILO (Organizzazione internazionale del lavoro), agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere la giustizia sociale e i diritti umani con particolare riferimento a quelli riguardanti il lavoro, ma i dubbi sul se (e sul come) la collaborazione potrà portare a risultati tangibili restano ancora oggi molti.

Non solo Qatar 2022, lo scandalo di Russia 2018 e i numeri che fanno paura

Lo sfruttamento del lavoro nei grandi eventi sportivi, in particolare di quello migrante, è una sceneggiatura non originale che si ritrova tanto nel presente quanto nel passato.

Lo scorso anno un’inchiesta condotta dal magazine sportivo norvegese Josimar a proposito dell’organizzazione dei Mondiali di calcio del 2018 in Russia, ha portato alla luce lo sconcertante trattamento di schiavitù cui sono sottoposti centinaia di lavoratori nordcoreani nella realizzazione dello stadio di San Pietroburgo. Costretti a lavorare sette giorni su sette, pagati una miseria per via di contratti capestro che trattengono fino al 90% del salario in favore del regime di Kim Jong-un, sorvegliati da guardie dotate di cani, vivono in condizioni poco igieniche in campi di container appena al di fuori dello stadio. “Sono come dei robot. Tutto ciò che fanno è lavorare, lavorare, lavorare. Lavorano dalle sette del mattino fino a mezzanotte. Ogni singolo giorno. Non smettono mai. Sono ottimi lavoratori, ma appaiono infelici. Non hanno vita” confidò alla rivista Pavel, un project manager impiegato con uno dei molti subappaltatori che lavorano dentro e fuori dallo stadio.

La Corea del Nord, che negli ultimi tempi è stata boicottata dalla comunità internazionale a causa dei molteplici test nucleari, sta di fatto usando i propri lavoratori come fonte di reddito, inviandoli all’estero e trattenendo poi la quasi totalità del loro “stipendio” a favore del regime. Costoro non possono fare nulla per scappare perché, come per i lavoratori migranti delle sedi mondiali in Qatar, vengono confiscati loro i documenti. Uno di questi lavoratori nordcoreani, nel novembre dello scorso anno, è stato ritrovato morto a causa di un attacco di cuore nel piccolo container in cui (soprav)viveva.

Ma anche migliaia di lavoratori del Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Bielorussia, Moldavia, Ucraina, seppure in termini “meno drammatici”, godono di pochissimi diritti: spesso non vengono pagati, e rischiano la vita per misure di sicurezza tutt’altro che adeguate. Nel solo periodo compreso tra agosto e dicembre 2017 quattro di essi sono morti per caduta o elettrocuzione nel sito della Zenit Arena di San Pietroburgo, e molti altri sono rimasti gravemente feriti. “Le autorità si rifiutano di parlare di lavoratori migranti, incidenti, e morti” collegate ai mondiali 2018 in Russia, affermò il giornalista di MR7, Sergey Kagermazov, alle domande della rivista Josimar.

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Fonte: josimar.no

A guardare bene, andando a ritroso nel tempo, lo sfruttamento del lavoro migrante nei grandi eventi sportivi è sempre esistito, specie nelle sedi assegnatarie dei giochi olimpici o dei mondiali di calcio collocate “nell’est” del mondo. Per di più, nonostante livelli di gravità differenti, sembra assumere sempre le stesse conformazioni. In occasione della messa in opera delle olimpiadi invernali di Sochi 2014 (anche stavolta in Russia), Human Rights Watch denunciò tutta una serie di abusi legati allo sfruttamento del lavoro migrante che, non fosse per l’anno e per il luogo potrebbero facilmente essere attribuibili alle esperienze contemporanee di Qatar 2022 e Russia 2018: stipendi incompleti, ritardati o non pervenuti, documenti di identità trattenuti (come passaporti e permessi di lavoro), contratti di lavoro non forniti o non rispettati, orari di lavoro eccessivi e scarsità di tempo libero, alloggi sovraffollati e pasti inadeguati, espulsioni dal Paese in caso di denunce alle autorità degli abusi subiti. Ed analoghe circostanze si registrarono pure durante la preparazione dei Giochi olimpici di Pechino 2008, nel cui caso sempre HRW si fece protagonista di una ferrea denuncia, purtroppo rimasta senza ascolto.

La cosa sconcertante è notare come dal 2000 ad oggi l’organizzazione dei più grandi eventi sportivi abbia quasi sempre generato un numero più o meno alto di morti collegate al lavoro nei cantieri: una alle olimpiadi di Sydney 2000, 40 alle olimpiadi di Atene 2004, 10 alle olimpiadi di Pechino 2008, 2 ai mondiali di calcio in Sud Africa nel 2010, 20 agli europei di calcio del 2012, 60 alle olimpiadi invernali di Sochi 2014, 7 ai mondiali di calcio in Brasile del 2014. Il rapporto ITUC del 2014, che presenta questi dati, produsse anche delle stime sul futuro, ipotizzando i decessi potenziali dei lavoratori migranti nel mondiale di Russia 2018 e di quello di Qatar 2022. Il quadro dipinto su quest’ultimo era terrificante: 4000 potenziali  vittime.

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Fonte: childrenwin.org

In memoria di vite spezzate

Le olimpiadi invernali di Sochi 2014 mostrarono come la Russia non fosse il Paese ideale su cui puntare per l’organizzazione di un grande evento sportivo, eppure la FIFA non cambiò idea sull’assegnazione del mondiale di calcio al Paese per il 2018. In Qatar la kafala non è una realtà recente o sommersa, ma ben radicata e nota, così com’è nota la quasi assente tutela dei diritti umani in capo al Paese, eppure la FIFA non esitò a concedergli l’assegnazione del mondiale di calcio per il 2022.

Quando arriverà il momento, se non è già arrivato, il massimo organismo del calcio mondiale, la FIFA appunto, sarà costretto a guardarsi dentro. Un esercizio che potremmo fare anche noi nel frattempo, per quel poco che potrà contare, magari proprio assistendo alla cerimonia d’inaugurazione del prossimo grande evento sportivo in programma, o al fischio d’avvio della prima gara. Boicottare la visione di un simile spettacolo per partito preso non sarebbe corretto del resto, visto il sacrificio in termini di dignità e di vite umane che avrà reso possibile tutto questo. Ma rendere omaggio con una riflessione a tutti i lavoratori migranti (e non), quello sì sarà nostro dovere fare, senza mai dimenticare le lezioni del passato, e del presente.

Andrea Dalla Libera

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