Dal call-center con furore
Appena dopo la laurea, ho lavorato per un paio mesi come centralinista in un noto call-center. Se fossi una fan di Raffaele Alberto Ventura (qui la nostra intervista), affermerei senz’altro di aver sposato il suo assioma sulla presunta insostenibilità della cultura, di aver abbandonato le mie aspirazioni giornalistico-creative per fare spazio ad altri ambitori più meritevoli o con le idee chiare da più tempo. La verità è che nella mia affannata ricerca di lavoro,di un qualunque lavoro, il noto call-center di cui sopra era stato il primo a non rispondermi “Le faremo sapere” o a non rispondere affatto, e a fornirmi coordinate per una giornata di prova. Seduta fra una signora di mezza età con abiti succinti e una ragazza dall’aria sospettosa che si affannava a coprire il suo foglio con i numeri di telefono ogni volta che la guardavo, ho passato un paio di mesi a sentirmi incredibilmente stupida per come riuscivo a farmi riappendere in faccia (e con la bocca aperta, in modo simil-ittico) mentre ero ancora intenta a pronunciare la parte **** della frase “Buongiorno signora! Sono Sofia della Blabla. La chiamo per offrirle una dimostrazione in omaggio dalla nostra azienda!”. Il minimo richiesto in un call-center per conservare un posto di lavoro pagato 300 euro al mese è fissare due appuntamenti al giorno. L’obiettivo finale di una trafila di telefonate effettuate con vecchi cellulari (e quindi no, niente auricolari, telefoni a norma e cose del genere), dimostrazioni porta-a-porta pagate 2 euro l’ora, pietose rivendicazioni come “Per favore signora, faccia lavorare noi giovani!” è convincere qualcuno che guadagna, con alta probabilità, meno di 1200 euro al mese, a spenderne più di 3000 per un oggetto di dubbia utilità e la cui longevità è, se tutto va bene, da Natale a Santo Stefano.
Cos’è il realismo capitalista
Nel 2009 la John Hunt Publishing Ltd pubblicava Capitalist Realism: Is There No Alternative? Quando finalmente, nel 2017, l’opera di Fisher viene tradotta in italiano da Valerio Mattioli per Produzioni Nero nella collana Not (152 pp., 13€) il titolo, dal famoso assioma thatcheriano per cui al capitalismo “there is no alternative”, viene abbreviato in Realismo Capitalista. Il noto call center è un ottimo esempio di come funziona il lavoro in quello che Mark Fisher ha definito “realismo capitalista”: le relazioni umane sono atomizzate e fragili, il posto di lavoro dissacrato e reso una forma di ricatto (questo o il nulla cosmico e ancora meno pagato) o di ammortizzatore sociale (il mito dell’impiego statale e il sogno di diventare Guardia Forestale in Molise), il senso di inutilità galoppante è il comune denominatore delle giornate, così come la sensazione di morso attorno alla gola che non c’è alternativa, che non ti meriti di meglio e che tanto vale non farsi troppe domande.

In un sistema economico fondato su gerarchie economiche, ma non solo, ben definite, dove la realizzazione intellettuale per i più viene quotidianamente spacciata come qualcosa di pretenzioso e sciocco e la maggioranza delle mansioni proposte a chi cerca di entrare nel mondo del lavoro sono soluzioni temporanee e senza garanzie, lo Stato ha principalmente funzioni di stampo poliziesco, il futuro sembra scritto ed “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Il capitalismo liberale viene visto come l’unica soluzione naturale e accettabile, l’unico orizzonte pensabile, reale, appunto, piuttosto che come un progetto prettamente politico per ristabilire le condizioni dell’accumulazione di capitale e restaurare il potere delle élite economiche.
Lavorare smart, deprimersi flessibilmente
Per foraggiare quest’ottica, l’unica possibile, il lavoro deve essere smart, dinamico e nomade, “contro qualsiasi burocrazia centralizzata”. Il mito della flessibilità è presentato come di una lotta alla routine, dove rivoluzionarie potenzialità politiche sono circoscritte dal realismo capitalista per cui bisogna resistere al cambiamento. La narrazione che accompagna la neoliberalizzazione è quella di una lotta di classe “finita male”, quando, a dire di Mark Fisher e David Harvey, è stata combattuta da un lato soltanto, quella dei ricchi, che possono sempre ribattere alle proteste che inflessibilità e decentralizzazione hanno comunque un certo retrogusto sovietico e no, non hanno certo funzionato.
Chiunque si muova fuori dalla sfera sociale a cui è destinato rischia da un momento all’altro di essere soverchiato e strozzato da sentimenti di vertigine, panico e un’ansia soffocante. Il mancato senso di coesione sociale produce atomizzazione, senso di precarietà esistenziale e soprattutto solitudine. L’individuo è responsabilizzato e portato a ritenere che l’instabilità dei suoi rapporti umani, la sua ansia e la sua solitudine siano dovuti alla sua inettitudine, al suo continuo “non meritarselo”. La felicità, o quanto meno quella sensazione di benessere e serenità generalmente intesa come tale, sembra essere riservata a un di individui meritevoli, performanti, inseriti nel sistema e generalmente anche di bell’aspetto, che sono espressione dell’élite che non si ammala di capitalismo.
La frammentazione sociale e il senso di inadeguatezza hanno come conseguenza una progressiva perdita di identità. Quello che è ufficialmente abbastanza, non è mai veramente adeguato o sufficiente, perché lo standard minimo è l’eccellenza. Secondo le statistiche OMS il 4,4% della popolazione mondiale soffre di depressione. Ci si ammala nelle fabbriche, nelle scuole, dove la socialità è in costante diminuzione e dove la malattia viene descritta come un fenomeno meramente chimico. La depressione è un fenomeno talmente diffuso da passare sotto silenzio, la prima malattia di massa nel regime totalitario capitalista, la società del controllo di Deleuze. Secondo Fisher, ripoliticizzare la malattia mentale è un compito urgente per qualsiasi sinistra che voglia davvero lanciare una sfida al realismo capitalista.
Negli anni Sessanta e Settanta il capitalismo ha dovuto affrontare il problema di come contenere e assorbire le energie che provenivano dal suo esterno. Adesso la tendenza è opposta: non esiste più un fuori da colonizzare e di cui appropriarsi. La vecchia lotta fra sovversione e incorporazione sembra aver esaurito il suo corso. Il capitalismo, semplicemente, occupa tutto l’orizzonte del pensabile. Non solo di quanto è considerato “possibile” e “praticabile” ma di quanto si possa anche solo concepire come reale. I pensatori neoliberisti si sono appropriati del lessico contestatorio del Sessantotto, mentre quelli che avrebbero dovuto essere utopisti hanno scelto di fungere da cani da guardia a istituzioni passate, adattandole ai tempi e al capitalismo e lasciandosi l’immaginario del futuro, che deve essere riconquistato. Un esempio? Pensate al New Labour di Tony Blair. Rimodernizzato, liberista e con un nuovo logo ciclabile e petaloso.

La cultura frantumata: analfabetizzazione dilagante
Il realismo capitalista si basa anche sulla graduale soppressione della cultura, che passa come qualcosa di noioso, frustrante, non immediato, e su una concezione del tempo suddivisa in microporzioni, che devono necessariamente contenere un colpo di scena, pena la perdita d’interesse. Nessuna narrazione complessa, di difficile consumo e digestione è destinata a durare laddove lo strumento preferito è il linguaggio elettrico, che non passa né per la voce né per la scrittura, L’elaborazione dei dati può infatti fare a meno di entrambe. Tanti imprenditori di successo, continua Fisher, sono dislessici. Quanto a un fine pratico, la cultura serve a poco: se va bene, otterrai lo stesso McLavoro che avresti ottenuto non studiando. Intellettuale indipendente e ai margini della cultura ufficiale, fondatore del blog K-punk , Fisher è stato anche un accademico, che denuncia come “ci sono studenti che vorrebbero Nietzsche allo stesso modo in cui vorrebbero un hamburger”: zuccherosa gratificazione on demand alimentata dalle logiche del sistema consumistico. C’è chi ha sposato la teoria che l’istruzione di massa significhi perle ai porci, aspirazioni in contrasto coi mezzi a disposizone e inutile ipereducazione: Fisher si domandava invece se l’impoverimento dei contenuti e l’eliminazione delle complessità non sia un preciso procedimento sistemico capitalista.
Il lessico politico è stagnante e reduce di uno slittamento dell’asse politico verso destra: la parola “liberal” tradotta come “progressista” ne è un esempio. La riappropriazione dell’immaginario del futuro non può che passare attraverso il linguaggio, dove l’alternativa venga presentata non come una via di mezzo, ma come un ventaglio di alternative fuori controllo, non disciplinate e prive di strumentalizzazione.
Brecht, Foucault, Badiou, Marcuse e poi Fisher hanno scritto come ogni politica di emancipazione per essere efficace debba puntare a distruggere l’appartenenza al cosiddetto ordine naturale: se quello che ci è presentato come naturale non è altro che una contingenza, l’impossibile è a portata di mano.
Sofia Torre
Copertina: not.it
presentazione intelligente, ben argomentata e con nessi significativi all’esperienza diretta
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