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Qui potete trovare il PODCAST della puntata di The Listen Up dell’1 febbraio 2018.
Alla fine di dicembre, la commissione incaricata dal governo sudcoreano di revisionare l’accordo raggiunto nel 2015 con il Giappone sull’annosa questione delle “comfort women” – le schiave sessuali coreane reclutate dall’esercito giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale – ha rilasciato le proprie osservazioni conclusive: il compromesso raggiunto, ha affermato, è imperfetto e carente, e Seoul si è dichiarata intenzionata a impugnare l’accordo e riaprire le trattative con la controparte nipponica, al fine di ottenere una soluzione più dignitosa e moralmente corretta per le vittime. Pochi giorni più tardi, con l’inizio del 2018, il ministro degli esteri Kang Kyung Wha, in una conferenza stampa tenutasi il 9 gennaio, ha tuttavia rigettato tale prospettiva. Il governo sudcoreano non procederà lungo la strada precedentemente annunciata: non vi sarà alcuna riapertura dei negoziati e le 43 schiave sessuali ancora in vita dovranno accettare un accordo brutalmente politico, che solo in minima parte rende giustizia alle sofferenze da esse ingiustamente subite.
Chi erano le “comfort women” e per che cosa lottano oggi
“Non era un posto per esseri umani. Era un mattatoio.” così Lee Ok-Seon ha descritto i tre anni da lei trascorsi in un bordello dell’esercito giapponese nella Cina occupata, dopo che, appena quattordicenne, era stata rapita da un gruppo di uomini dalla città di Busan, sulla costa meridionale della Corea. Di giovani donne con una storia simile a quella di Lee Ok-Seon ve ne sono state a migliaia. In molte non hanno avuto modo di raccontare la propria tragedia, relegate in un silenzio che per anni, dopo la fine della guerra, ha coperto la vicenda. Le stime, approssimative e imprecise, parlano di un numero di ragazze compreso tra le ventimila e qualche centinaio di migliaia (secondo i cinesi, addirittura quattrocentomila, ma è difficile confermarne l’accuratezza). Venivano reclutate con l’inganno e dietro false promesse, assicurando loro un onesto lavoro in fabbrica o nel settore dell’accoglienza, e finivano per far parte dei “corpi di prostitute” creati dall’Impero giapponese a beneficio del proprio esercito. Provenivano dalla Cina, dalle Filippine e soprattutto dalla Corea (in numero minore si contavano anche donne provenienti da altri Paesi del sud-est asiatico). Le più giovani avevano appena undici anni.

Nella mente degli ideatori del sistema dei “centri del comfort”, che negli anni Trenta e Quaranta del Novecento raggiunse una diffusione capillare nei territori occupati dall’Impero, la prostituzione serviva a scongiurare, o quantomeno a limitare, il rischio di stupri di guerra e a contenere il malcontento dei soldati, evitando ribellioni e diserzioni. Una sorta di perversa valvola di sfogo della macchina bellica nipponica, con conseguenze devastanti sulla vita di migliaia di donne innocenti.
Dopo la fine del conflitto mondiale e dell’occupazione, la tragedia venne in gran parte dimenticata, o volutamente ignorata. Il Giappone negò per anni le proprie responsabilità e il governo conservatore sudcoreano, impegnato prima nella guerra contro i comunisti del Nord e, in seguito, interessato maggiormente a far ripartire il Paese, sacrificò la tutela dei diritti delle proprie connazionali alla causa dello sviluppo economico e industriale. Fu solo negli anni Novanta che le ex “comfort women” iniziarono a trovare spazio per raccontare la propria storia e la loro vicenda infiammò ben presto la stampa nazionale e mondiale. L’opinione pubblica coreana prese coscienza del loro dramma e cominciò a fare pressione affinché il governo giapponese si pronunciasse a riguardo. Dal 1992, le vittime iniziarono a riunirsi ogni mercoledì per protestare davanti all’ambasciata giapponese a Seoul e, nello stesso luogo, venne in seguito installata la statua di una ragazza seduta, con le mani strette in grembo, in onore di tutte le giovani divenute schiave sessuali.

Due decenni di compromessi imperfetti
La vicenda delle donne coreane costrette dall’esercito giapponese a prostituirsi resta oggi uno dei più gravi motivi di attrito tra le due grandi democrazie asiatiche e ha continuato, nel corso degli anni, a creare tensioni tra i due Paesi. Se Seoul ha lentamente iniziato ad assecondare le richieste delle vittime, Tokyo ha continuato a sostenere che le questioni risalenti all’epoca dell’occupazione fossero interamente risolte dai trattati stipulati alla fine della guerra. Una prima simbolica ammissione di colpevolezza venne nel 1993, quando, dopo un lungo silenzio, il governo nipponico pubblicò un rapporto in cui riconosceva la veridicità delle accuse a suo carico. Venne creato un fondo a sostegno delle “comfort women” ancora in vita, ma l’iniziativa non fece altro che agitare ancor di più gli animi dell’opinione pubblica internazionale. I soldi stanziati non provenivano dalle casse pubbliche del governo, bensì da contributi privati, e parve evidente alle donne coinvolte che le istituzioni giapponesi stessero in tal modo tentando di evitare di assumersi la piena responsabilità dei fatti accaduti. Molte vittime rifiutarono di accettare il denaro che veniva loro offerto.
Solo nel 2015 si è giunti a un accordo formale tra i governi: un accordo imperfetto, criticato fin da subito dalle associazioni a sostegno delle “comfort women”. Il nuovo compromesso prevede lo stanziamento di 8.3 milioni di dollari, provenienti, questa volta, dalle finanze pubbliche nipponiche, e scuse formali da parte delle autorità. L’ormai ex presidentessa sudcoreana Park Geun Hye, fautrice dell’accordo, ha esortato la scontenta opinione pubblica ad accettare gli sviluppi, nell’ottica di un necessario miglioramento delle relazioni con i vicini. Ma proprio questo ha suscitato le ire e lo sdegno della grande maggioranza dei coreani: l’intesa firmata con il Giappone è stata essenzialmente politica e non ha tenuto conto della volontà delle vittime, né tantomeno è mai stato dato loro modo di intervenire ed esprimere i propri desideri nel processo di stesura di un accordo che, in fin dei conti, riguarda il loro dramma e gli abusi che in prima persona hanno subito.

Promesse elettorali, strategie politiche e speranze infrante
Durante la campagna elettorale, nella primavera dello scorso anno, il candidato Moon Jae In aveva promesso che, se fosse stato eletto, avrebbe istituito una commissione incaricata di analizzare e rivedere l’accordo. Dopo mesi di lavori, alla fine di dicembre del 2017 sono stati resi pubblici i risultati della revisione. La task force ha affermato che il patto con il Giappone è imperfetto e viziato, lungi dal realizzare quella giustizia che i cittadini chiedevano. Tuttavia, nonostante inizialmente il ministro degli esteri Kang Kyung Wha avesse affermato di voler impugnare il trattato e riaprire i negoziati, al fine di giungere a una soluzione più equa, pochi giorni dopo il governo sudcoreano è tornato sui propri passi. Pur chiedendo scusa alle vittime per come la questione era stata affrontata due anni prima, Moon Jae In ha dichiarato che l’accordo rimarrà in vigore nei termini concordati nel 2015.
La procedura di revisione era necessaria per tentare di assecondare le richieste dell’opinione pubblica e placarne gli animi, dopo il travagliato periodo che aveva portato, tra l’altro, all’impeachment dell’ex presidentessa Park Geun Hye e al suo arresto per corruzione. Affermando la difettosità dell’accordo, si è voluto iniziare a render conto degli errori della precedente gestione e provare a conquistare il consenso dei cittadini servendosi di una questione delicata e particolarmente sentita a livello nazionale. Ma, al contempo, Seoul non può permettersi di rischiare un peggioramento delle relazioni con il vicino Giappone, non dopo le sempre maggiori tensioni con la Corea del Nord, e, per di più, a solo un mese di distanza dall’apertura dei Giochi Olimpici di Pyeongchang.

Delle decine di migliaia di schiave sessuali coreane, solo 43 sono oggi ancora in vita. Donne stanche e ormai anziane, che hanno passato gran parte della propria vita a nascondersi nel silenzio e che, una volta trovato il coraggio e il sostegno per denunciare gli abusi subiti, hanno ricevuto in cambio solo un’amara consolazione. Allo stato attuale, pare che la vicenda delle “comfort women” sia destinata a non avere ulteriori sviluppi, avendo Seoul accettato la richiesta di Tokyo di non tornare nuovamente sull’argomento in futuro. L’accordo imperfetto del 2015 diverrà, probabilmente, l’atto conclusivo di una diatriba durata decenni, che ha turbato nel profondo l’opinione pubblica sudcoreana e unito la nazione, ma che è stata anche più volte strumentalizzata e, infine, sacrificata agli interessi geopolitici delle istituzioni.
Alessia Biondi
[L’immagine di copertina è stata scattata da Maina Kiai e pubblicata su Flickr]
Un pensiero su “Le prostitute dell’esercito giapponese: il dramma delle “comfort women” che da 70 anni divide Tokyo e Seoul”