In un bellissimo libro Elena Pulcini, docente di filosofia sociale all’Università di Firenze, ha scritto che “i tratti distintivi della nostra epoca sono la vulnerabilità e la contaminazione a cui siamo esposti. Per questo, è necessario capire che la vera scommessa è investire nei luoghi dove le diversità diventano risorse. Per cui la nostra cultura si apre alle altre, senza necessariamente produrre l’omologazione dell’una o dell’altra.”
Questo luogo è senza dubbio la scuola, secondo Giancarlo Cavinato del Movimento di Cooperazione Educativa. “È qui, a parer suo, che i bambini sviluppano un’identità più ampia attraverso lo scambio e la mescolanza. Soprattutto, però, ciò accade grazie al riconoscimento delle peculiarità e delle diversità altrui. La scuola, mi dice, oggi ha all’interno delle sue aule il mondo intero”. Un universo che, però, sembra viaggiare su un binario parallelo rispetto a quello degli adulti. Dove, diversamente, l’”altro” è considerato sempre di più un nemico. I pregiudizi e l’odio razziale, ormai, sembrano infatti segnare irrimediabilmente le relazioni sociali tra gli individui.
Quando Giancarlo e i suoi colleghi, nel 1951, decisero di dar vita al Movimento le cose in Italia erano un po’ diverse. Lo straniero non era ancora, o meglio non era più, lo spauracchio contro cui aizzare masse adulanti. Il meridione, di lì a poco, avrebbe iniziato ad affacciarsi alle porte del ricco ed industrializzato nord. Alla scuola spetterà il compito di formare i futuri cittadini della neonata Repubblica italiana. Sacche di povertà e analfabetismo, diffuse in buona parte della popolazione, spinsero perciò questo gruppo d’insegnanti a seguire l’esempio di Celestin Freinet. Il maestro francese che, nei primi anni 20, cercò di fornire istruzione a grandi masse di proletari e contadini.
Oggi la loro battaglia, a molti anni di distanza, si è trasferita dentro alle classi miste. Le stesse, in cui migliaia di bambini “stranieri” impartiscono una grande lezione di vita a tutti noi: dare forma a quelle che sono state definite “piccole comunità accoglienti e multietniche”. Lo fanno con una naturalezza sconcertante. Perché, come mi dice ancora Giancarlo Cavinato, esiste una identità/cultura dell’infanzia che non guarda al colore della pelle e che non si ferma all’apparenza.
Tutto questo, a detta di Giuseppe Bagni del Centro Iniziativa Democratica Insegnanti, nonostante la società continui a lanciare loro messaggi forvianti. Uno su tutti: “quello per cui, tanto per fare un esempio, l’adulto d’origine albanese seduto al bar sotto casa è presentato come un pericolo. Sedersi nel banco affianco al figlio di quel uomo dal bizzarro accento dell’est, però, insegna loro che le diversità sono poche in fondo, e che quelle esistenti rappresentano una vera e propria ricchezza. Tutto ciò accade perché quella del compagno di banco, afferma Beppe, è una categoria del tutto amicale. Un legame molto stretto, che si costruisce giorno per giorno e che non dimentichiamo più”.
Se lo sono dimenticato, a quanto pare, tutti quei Senatori che lo scorso dicembre hanno deciso di disertare l’aula di Palazzo Madama. Ufficialmente, si è detto che i numeri erano troppo risicati e che la proposta di legge rischiava di non essere approvata. Non lo sono affatto, invece, i numeri che parlano di oltre 800.000 minori interessati dal c.d. Ius culturae. Una rivoluzione che avrebbe potuto permettere ai bambini nati in Italia da genitori stranieri o arrivati entro il dodicesimo anno d’età, di ottenere della cittadinanza italiana dopo aver completato con profitto un ciclo di studi di cinque anni oppure un corso professione di almeno tre. Per i minori arrivati dopo i 12 anni, invece, sarebbe bastato dimostrare di aver passato gli ultimi 6 anni Italia e aver completato un ciclo di studi.
Un bruttissimo messaggio, secondo Giancarlo Cavinato, che la politica ha dato a questi ragazzi. “Ripartire da qui sarà molto difficile, ammette con un pizzico di delusione. Bisognerà ripensare ad una legge nuova, con il rischio concreto di fallire nuovamente”. Manifestazioni, scioperi della fame e oltre 9000 firme raccolte, quindi, alla fine dei conti non sono serviti a niente. Le ragioni e l’ostilità di chi si oppone al pluralismo culturale nelle scuole e all’idea che tutti i bambini abbiamo diritto ad avere una cittadinanza, come recita la legge n.176 del 1991, hanno avuto la meglio.
Per l’ennesima volta, quindi, la politica non è stata capace di raccogliere le istanze di oltre 1400 insegnanti che da anni chiedevano che il loro impegno giornaliero, per dare pari dignità a tutti gli alunni, fosse finalmente riconosciuto. Convinti, mi dice Beppe Bagni, che lo Ius culturae nelle loro classi “sia già un dato di fatto”. Checché ne dica la politica, infatti, quella che è stata ribattezzata “piccola cittadinanza” è una realtà tra i banchi di scuola, a dimostrazione dello strettissimo legame esistente tra cultura, intesa nella sua accezione più strettamente etimologica, ed identità.
Tutto: dalle persone che incontriamo ai libri che leggiamo, passando per le esperienze che facciamo finisce per definire la nostra identità e la nostra cultura. “Soprattutto però, aggiunge Barbara Iannarelli del Coordinamento Insegnanti per la Cittadinanza, la scuola che frequentiamo”. “I ragazzi, oggigiorno, secondo Giancarlo Cavinato, sono figli di un’identità planetaria. Prodotto di aule scolastiche fatte di una diversità esplosiva, multietnica e multiculturale”. Con questa condizione i bambini devono relazionarsi. Offrire una realtà fittizia, privata delle varie anime che compongono la nostra società, oltre che pericoloso dal punto di educativo e sociale è anche una bugia.
Solo la scuola ha il potere di trasformare i sudditi in cittadini coscienti e consapevoli, diceva Piero Calamandrei, cittadini che sentano di appartenere, pienamente, alla società in cui vivono. “Il tradimento delle aspettative dei ragazzi è la principale causa di frustrazione e conflitti”. Così come classi-ghetto non possono che produrre società-ghetto ed alienazione, rilegando questi ragazzi ai margini della società.
“In classi miste i bambini, invece, si sentono tutti parte dello stesso sistema di diritti e doveri. Tanto il bambino nato in Italia da genitori italiani, quando il suo compagno di classe nato da genitori di origine marocchina. Passano, in altre parole, dal selvaggio sistema di regole che disciplina il quartiere in cui vivono, ad in uno in cui queste sono in un certo senso rigide e precise. Dalla scuola, quella fatta di classi miste, la politica avrebbe molto da imparare”.
E, in particolare, potrebbe imparare che per costruire una società tollerante si deve partire dalle aule di scuola, luogo per eccellenza, dove realizzare un’integrazione che non sia solo teorica ma fatta di pratiche concrete. “Negli ultimi settanta anni sono stati fatti passi da gigante grazie all’associazionismo tra insegnati, ci tiene a precisare ancora Barbara, e i frutti sono visibili a tutti”. Basta entrare in una qualsiasi scuola primaria per notarlo. “La disomogeneità culturale, infatti, è tutt’altro che un ostacolo all’apprendimento, ma un modo per stimolare la curiosità e preparare i cittadini del futuro”.
Quello che per mancanza di lungimiranza, rischia di essere tolto a migliaia di bambini che si sento a tutti gli effetti italiani. Il sentore, infatti, è che la politica in questo paese arrivi sempre in ritardo. “Ciò, secondo Beppe Bagni, è dovuto ad uno scollamento profondo tra la società civile e coloro che dovrebbero recepirne le istanze”. Un giorno, come mi racconta Giancarlo Cavinato, un Assessore rivolgendosi ad un ragazzo nigeriano ha detto sprezzante: siete voi il futuro di questo paese. Di tutta risposta il ragazzo ha fatto notare come, invece, il futuro per lui sia proprio la stessa classe politica.
Mattia Bagnato
[L’immagine di copertina è tratta da Il Fatto Quotidiano.it]
2 pensieri su “Che cos’è l’integrazione? Chiedetelo a scuola”