Il mistero di Antonello Venditti

«Si chiama gioventù quella cosa che quando la vivi è un inferno
e quando la ricordi è un paradiso»

Antonello Venditti, L’importante è che tu sia infelice

Se nella musica italiana esiste qualcuno che mi inquieta più di Pierpaolo Capovilla, questi è senza dubbio Antonello Venditti. Nato sotto il segno dei pesci, l’otto marzo del ’49, col suo crine tirato indietro, rado ed eternamente corvino, il sorriso beffardo incorniciato da rughe aspre, mi ricorda la versione con i Ray-Ban di un demone errante giapponese. È probabilmente per questa suggestione sovrannaturale che la sua produzione non è mai stata toccata dalle mie e – ne sono certo – dalle vostre frequentazioni musicali della giovinezza, se non per imposizione di un potere genitoriale eternamente devoto alle canzoni d’amore contrastato e al synth borbottante di Ci vorrebbe un amico – come si sposava bene quel sound anni Ottanta all’autoradio estraibile a cassette di una vecchia Lancia Prisma marrone coriandolo.

VENDITTIWAVE ア衛育

La produzione vendittiana, dicevamo, sembra segnata dal prevalere della tematica amorosa, sospinta da una preponderante romanità, della quale il cantautore è alfiere supremo con Franco Califano, portandoci a etichettarlo quale bardo di borgata un po’ tamarro. Eppure, se andiamo a ritroso nel tempo, alle radici biografiche e musicali, scopriamo una maturità e un impegno civile non indifferenti. Partiamo, dunque, dal principio.

Venditti Begins

Venditti cresce in una famiglia d’estrazione borghese, in Mio padre ha un buco in gola racconta, ironico e lapidario, della ferita di guerra del padre Vincenzino, della madre insegnante, dello studio matto e dell’obesità giovanile:

Mio padre ha un buco in gola e una medaglia d’argento, oggi è andato in pensione, alta burocrazia nazionale. Mia madre è professoressa, o meglio, una professoressa madre, m’ha dato sempre quattro  anche se mi voleva bene, oggi è andata in pensione, con la medaglia della scuola, la guarda sempre con orgoglio, ascoltando la radio. Mia nonna è una brava signora, ma nonostante tutto è morta, cucinava con troppo amore e mi faceva ingrassare, ed io, io crescevo bene, grasso come un maiale, studiavo come un matto, per fare onore all’onore…

Il giovane Antonello è grasso e ama studiare, le prime canzoni che scrive sono Sora Rosa, Lontana è Milano e Roma Capoccia. Tralasciamo quest’ultima che è uno standard del suo repertorio e la prima professione di fede alla Città Eterna, mettiamo pure da parte Lontana è Milano, primissimo pezzo sull’emigrazione, Sora Rosa è il grido amaro di un giovane colmo d’energie che non trova spazio in un paese popolato da arrivisti attaccati alla poltrona. La lingua è il vernacolo romano alla Giovanni Gioacchino Belli. Il destino del giovane, di tutti i giovani, è scegliere tra il suicidio e l’andare via, nell’ultima vana speranza di vedere «chi magna troppo adesso […] possa sputà le ossa che sò sante». Analizzando il testo si può notare l’inizio caratterizzato dalle molte anafore lasciare spazio, nella parte centrale, a endecasillabi variamente rimati che conducono alla splendida strofa:

Si c’hai un còre, tu me pòi capì
Si c’hai ‘n amore, tu me pòi seguì
Che cce ne frega si nun contamo gnente
Se ssemo sotto li calli della ggente.

Non è un caso che l’Accademia Belli l’abbia insignito del titolo di Accademico Onorario. Dimenticavo, questa canzone Venditti la scrive a quattordici anni. Antonello cresce e dimagrisce, ottiene la maturità classica e s’iscrive a giurisprudenza a La Sapienza laureandosi nel ’73; si specializza in Filosofia del Diritto ma, dettaglio magnifico, ritira la laurea nel ’99, per i suoi cinquant’anni, con una seduta-concerto.

È appena passato il ’68 e Antonello è già sotto contratto con la It, il giovane cantautore fa parte del gruppo di artisti che si esibiscono al celebre Folkstudio. Nella sua biografia, L’importante è che tu sia infelice, scrive:

Era un martedì quando staccai il primo passo dentro al Folkstudio di via Garibaldi e trovai un tale Francesco De Gregori che alternava composizioni sue a traduzioni di brani di Leonard Cohen e Bob Dylan. Mi presentarono Giancarlo Cesaroni, ovvero l’uomo-censura, grande boss, diviso fra sigaro, Ballantine’s e corse dei cavalli. A fare i provini c’era la fila, decideva lui a insindacabile giudizio. In un angolo addossato al muro, malmesso e di schiena al pubblico, c’era un pianoforte che veniva usato solo in caso di jazz. Quasi non esisteva come strumento nell’immaginario collettivo. Gli suonai “Sora Rosa”, “Roma capoccia” e “Viva Mao” e il capo sentenziò: “Puoi venire domenica”. Lo spazio domenicale cominciava alle 14:30 e terminava quando noi decidevamo di far girare le chiavi. Ci chiamavamo poco fantasiosamente “I Giovani del Folk(studio)”, ne facevamo parte io, De Gregori, Giorgio Lo Cascio, Ernesto Bassignano, i quattro ragazzi con la chitarra e il pianoforte sulla spalla finiti nella prima strofa di “Notte prima degli esami”.

Nel «pianoforte che veniva usato solo in caso di jazz» c’è parte della carica innovativa del giovane Venditti: l’Italia è per tradizione un paese di chitarristi da spiaggia e il pianoforte non è certo lo strumento privilegiato presso il cantautorato; mentre vi scrivo fatico a pensare ad artisti, anche recenti, che siano assidui frequentatori degli 88 tasti al di fuori del jazz. Bisogna andare al primo, contemporaneo del nostro, Elton John per trovare qualcosa di simile. Lo Cascio, testimone privilegiato, conferma la novità della tecnica pianistica e dalla voce del giovane in più occasioni. Nella biografia su De Gregori riporta le parole del produttore Lilli Greco:

Era rimasto molto colpito dal modo assolutamente inedito con il quale Antonello si accompagnava al pianoforte: innanzitutto l’impostazione più ritmica che melodica dell’accompagnamento, e inoltre una caratteristica di tecnica pianistica estremamente efficace: Antonello creava un bordone potente con la mano sinistra suonando la tonica con il mignolo e il pollice in ottava, completando i bassi con la terza o la quinta a scelta; con la mano destra eseguiva l’accordo con un risvolto inconsueto: terza, quinta e ottava senza tonica. Il risultato finale era quello di una grande completezza ed estensione di suono.

Da Lo Cascio viene fuori un altro elemento importante: Venditti da ragazzo ha già una voce straordinaria; provate ad ascoltare i primi album, in particolare Le cose della vita e troverete come la voce sia già in buona parte formata, anche se con qualche sfumatura alla Cocciante, manca unicamente quello che sarà il suo supremo marchio di fabbrica, l’universalmente noto “vibrato di Venditti” (badate bene, di Venditti e non alla Venditti), quella altalenante strozzatura della voce che se provate a ripetere sembrerà che siate sotto un getto d’acqua gelida nella doccia.

Dal cenacolo musicale del Folkstudio viene fuori la prima incisione di un disco insieme a un altro ragazzo della Scuola Romana, Francesco De Gregori: i due scelgono di registrare insieme per dividere le spese. Sulla copertina del disco compare la figura di Ophelia dipinta dal preraffaellita John Everett Millais, insieme con il nome dell’album (e del duo), Theorius Campus: la genesi di nome e copertina dell’album rimangono un mistero – forse turbe giovanili dei due –, ciò che resta sono le carriere straordinarie e divergenti che si dipartono da questo album, misconosciuto ai più.

La “prima fase”: gli anni Ottanta e il successo

Dopo Theorius Campus inizia la “prima fase” nella carriera solista del cantautore, un periodo incredibilmente fertile: nel ’73 Venditti esordisce, stand alone, con L’orso bruno, disco dagli arrangiamenti possenti e sinfonici che forse non gli vanno particolarmente a genio se, nello stesso anno, chiude con la It per registrare con la RCA Le cose della vita, disco che fa da pendant al precedente per un ritorno a una musicalità essenziale, fatta solo di pianoforte, tastiera al massimo. Il ’74 si apre con una denuncia per vilipendio alla religione di Stato per il verso contenuto nella canzone A Cristo: «ammazzate Gesù Crì, quanto sei fico» e una condanna a sei mesi con la condizionale. Anche se “ammazzate” in dialetto romano è un complimento, certo la polemica con la religione non è assente dalla produzione del periodo, basti pensare a Marta: «Prega Marta nella sera / nessun Dio risponderà […]. Lotta Marta, nella sera, io sarò vicino a te».

Il successo è alle porte, “Ce n’est qu’un début, continuons le combat”.

Nel 1975 Venditti tira fuori l’album da testa delle classifiche, Lilly. Ascoltatelo. Fatevi questo regalo. In sole sette tracce abbiamo una summa della poetica del primo Venditti, è un disco personale (c’è l’amore all’eroina della title track, il matrimonio breve e burrascoso con Simona Izzo in L’amore non ha padroni suonata da un pianoforte in tempesta; c’è la polemica col giornalista Enzo Caffarelli in Penna a sfera), non mancano Roma e la romanità in Santa Brigida e nella novella storica Attila e la stella, ma c’è anche una parte di storia italiana in Lo stambecco ferito (incentrata sulla violenza politica e sulla storia di Felice Riva, “mondano” imprenditore che eredita, a venticinque anni, la guida del gruppo tessile Vallesusa, impresa simbolo del “Miracolo italiano” degli anni Sessanta e fallita a metà del decennio): «Uno di quei brani che non si conoscono» a detta dello stesso cantautore. Soprattutto c’è la struggente ballata Compagno di scuola, il primo brano di Venditti incentrato sui ricordi scolastici, pezzo da magone immenso sull’impegno politico giovanile all’alba del ’68 e sul suo portato successivo per la generazione delle barricate. Sul piano tecnico è un artista perfettamente maturo: la voce è matura e riesce a spingersi in alto sia con potenti acuti che col suo vibrato. Persino nell’aspetto sta già prendendo piede la stempiatura alla quale si contrappone, irriducibile, la chioma come di paglia corvina, accompagnata fino alle soglie degli anni novanta da una fitta barba, lo stesso look di Stretcher, il capo della CIA in Narcos.

Pronto al successo, il cantautore romano traghetta l’Italia dai 70’s agli 80’s con la sua musica, a metà tra donne e pezzi sul disastro di Seveso o sul compromesso storico (Nostra Signora di Lourdes). In questo periodo arrivano dischi memorabili come Sotto il segno dei pesci e Buona domenica: vi sfido a non commuovervi su Modena, ballata sulla crisi del PCI descritta come se fosse la più complicata delle storie d’amore. Mettete su questi album, scoprirete di averli già dentro.

Negli anni ’80 al centro delle attenzioni di Venditti c’è la Magica: la Roma ha una squadra solida e affamata e riesce a vincere il secondo scudetto della sua storia nel 1983, Venditti celebra la vittoria con un concerto al Circo Massimo che praticamente diviene il tempio consacrato al Vendittianesimo. La stessa cosa accade quando, l’anno seguente, la Roma gioca e perde la finale di Coppa Campioni, ai rigori contro il Liverpool. Inutile dire che i due inni della Magica, Roma Roma Roma e Grazie Roma, li ha scritti lui.

Avrete già notato che, quanto a tematiche, molte delle canzoni di Venditti sono animate da un impegno civile, politico e sociale non indifferenti, ma che sostanzialmente ci ricordiamo di lui solo per testi d’amore. Questo avviene per due motivi: il primo è che i brani “impegnati” risultano un po’ eterogenei, qualcuno è poco trasparente, qualcun altro lo è troppo. Il secondo, e questo è decisivo, perché il nostro sta alle canzoni d’amore come Proust alle madeleine: del sentimento ha eviscerato ogni aspetto e ne ha scritto per qualunque occasione. Qualche esempio: quando sarete nell’ora più buia della vostra relazione, vi sarà di conforto, oltre a “volere un amico”, immelanconirvi dolcemente e pensare a «scopare bene» grazie a Dimmelo tu cos’è.  Nel momento in cui sarete fremebondi di desiderio carnale, il videoclip di Alta Marea (cover di un pezzo dei Crowded House), girato negli Usa e con protagonista una giovane Angelina Jolie (nei miei sogni più ispirati vedo la coppia Antolina), farà di voi versioni tangibili di personaggi del marchese de Sade.

Con questa canzone approdiamo agli anni Novanta e al momento nel quale si verifica il sostanziale scarto nei modi e nella “ricezione” di Venditti: la barba scompare e gran parte dell’impegno civile svanisce con essa (fatto salvo qualche pezzo come Dolce Enrico alla memoria di Berlinguer). In capo a un decennio la vita diventerà una fantastica storia e Venditti sarà definitivamente Antonello, un personaggio talmente stilizzato da essere indistinguibile dalla caricatura che ne ha fatto Guzzanti con Grande raccordo anulare e L’esondazione dell’Aniene.

La Grande Antonellezza

Nel libro Tony Pagoda e i suoi amici, Paolo Sorrentino dedica un intero capitolo ad Antonello Venditti. In mezzo a una Roma “morta” e deserta, il protagonista s’imbatte nel cantautore, appena fuori da Santa Cecilia: sono entrambi caduti in mistiche meditazioni alla vista di una rubizza e rubiconda suora di un metro e cinquanta. Tony è quasi alle lacrime. Nelle loro peregrinazioni congiunte Antonello è nastro che si riavvolge sulla sua giovinezza:

Così era Venditti, grassissimo, emarginato e stigmatizzato dalla ferocia altrui. Isolato, trovava conforto solo nell’amicizia consolatoria delle donne. E questa è stata una delle sue fortune, dice lui. È diventato, di volta in volta, Marta, Sara, Lilli. È diventato la protagonista. Niente più finzioni. E infatti le donne si decompongono ai suoi piedi con un’unica ambizione: che lui le ricomponga attraverso detonanti note di pianoforte suonate come una chitarra. Un’altra fiammata della libertà di Venditti.

Sorrentino è un testimone ragguardevole che avvalora la potenza erotica delle canzoni di questo strano uomo, tant’è che non solo lo pone al centro di questa epifania in Tony pagoda e i suoi amici ma soprattutto ne fa la chiave del successo di Jep nel gioco di seduzione tra il personaggio di Servillo e quello della Ferilli ne La Grande Bellezza. Sorrentino non fa nulla per nasconderlo: Jep va a casa della Ferillona, che intanto sguazza in piscina, la canzone Forever fa da tappeto sonoro a tutta la scena funge da collante semantico con il successivo epifanico carrello sul maestro, come evocato dalla sua stessa voce solo per salutare Jep Gambardella. La Ferilli capitola. Sorrentino, ti abbiamo scoperto.

Torniamo a Tony Pagoda:

“A un certo punto degli anni novanta, ho smesso di essere Venditti e sono diventato Antonello”. Un’affermazione della quale, per ora, ignoro il significato. Poi glielo chiedo di riflesso incondizionato: “Ma quando intitolavi quell’album Che fantastica storia è la vita ci credevi veramente?”. […] Venditti dice, in preda a un sogno: “Stanno cominciando a cucinare, lo senti Tony? Sono fritti. Stanno facendo i fritti,” e poi si mette il dolcificante nel caffè.

No, non ci crede veramente che la vita è una storia fantastica e, mio malgrado, non ci credo neanch’io. Quando si finisce a parlare un po’ di donne, della loro influenza sulle sue canzoni d’amore, allora si fa evanescente. […] E non perché sia materia che faccia male, ma forse perché non è così decisiva come si potrebbe credere e infatti […] dice che le cose più belle le ha scritte tra i nove e i quattordici anni, quando percepiva i genitori come dei tiranni e la solitudine l’unica amica che era riuscito a trovare.

È possibile che, a un certo punto della sua carriera, Venditti abbia deciso di diventare nazionalpopolare, musicalmente confortevole e rassicurante, di diventare, insomma, Antonello? Naturalmente. Ma come si spiega, allora, questa sua insistenza nello scrivere canzoni e fare tournée, non potrebbe, con tutte le pile di dischi vendute (dei quali è anche produttore) semplicemente ritirarsi? Cosa spinge Venditti ad andare avanti con la musica se non la  percezione di non aver ancora declamato, con atteggiamento anti-montaliano, la formula che possa aprire mondi? C’è un inafferrabile non-dit nascosto dietro il sintomatico mistero dei suoi Ray-Ban, come dice Tony, nell’agnizione finale del capitolo sul maestro:

«Venditti contiene dentro di sé un mondo molto tortuoso e frastagliato, anche se a volte fa finta che non sia così. […] Ha da anni un successo clamoroso, ha composto centinaia di canzoni, ma è come se non avesse trovato ancora la canzone che smaschera la sua sdrucciolevole difficoltà di stare al mondo». 

Qualunque sia il suo mistero, gli sono grato per aver risolto il mio, a Modena.

Matteo Cutrì
@Sbronzon

4 pensieri su “Il mistero di Antonello Venditti

  1. Gran bell’articMatteo, complimenti. Peccato per quel “Giovanni” sbagliato nel nome del grande Belli. Le fonti sono talmente tante che voglio pensare sia sia trattato di un lapsus froidiano legato a chissà quale altra sua conoscenza poetica…

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  2. bravo. articolo scritto in modo originale e con grande competenza musicale. uno dei più illuminanti mai letti su questo cantautore.

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