Disintermediazione. Un concetto forse non così ben conosciuto come meriterebbe, dato che è alla base di una caterva di fenomeni che affliggono/benedicono la contemporaneità in cui sguazziamo. Il declino dei sindacati, il fatto che coi pareri dei medici ci sciacquiamo le ascelle, la crisi dei partiti politici, l’epidemia di fake news che impesta mezzo mondo. Ecco, in questa triste parata di tramonti di porzioni di mondo come l’avevano conosciuto i nostri genitori, anche la figura del giornalista musicale è messa in discussione (che detto così sembra come preoccuparsi della messa in piega mentre la casa è allagata, ma in fondo non possiamo essere engagé a tempo pieno, no?)
Oltre allo sticazzi che abbiamo prontamente provveduto ad aggiungere a questa stessa considerazione, in realtà è da poco giunta una nuova conferma a riguardo, da parte di una delle istituzioni secolari più bistrattate ultimamente in Italia e non solo: la scienza.
La scienza economica, nello specifico. Che, pur lavorando coi numeri, non ha certo lo status di scienza dura – anche se per ragioni imperscrutabili se la bullano in tal senso più di noialtri umanisti. Comunque, in un volumetto uscito a fine 2016, intitolato The Production and Consumption of Music in the Digital Age, edito da Routledge nella collana di Geografia umana, Bastian Lange dell’Università Humboldt di Berlino ha contribuito col paper The Evolution of Music Tastemakers in the Digital Age: The Rise of Algorithms and the Response of Journalists. Cerchiamo di capire cosa dice.
Del fondamentale parere dei giornalisti musicali la gente non se ne cura più tanto: il loro ruolo come intermediari tra chi la musica la produce, mettendoci i denari, e la base di ascoltatori che con altri denari la acquista è sempre più schiacciato da quella stessa base che si è messa a fornire giudizi a destra e a manca. I mezzi sono i blog, i social network e, in maniera più interessante, gli algoritmi che sono incastonati nelle piattaforme di musica digitale. Il trend è quello della personalizzazione crescente dei flussi a cui gli utenti si abbeverano e, come ormai sappiamo da tempo, la novità del 2.0 è che questi flussi sono costantemente creati e ridefiniti dagli utenti stessi.
Questo significa innanzitutto che i siti di musica e gli shop digitali con funzioni social incorporate lasciano fare a quest’onda proveniente dal basso, finendo però col curare meno la qualità dell’offerta. A rimetterci sono coloro che per decenni hanno fatto dello spacciare buona musica alle masse la missione della propria professione: giornalisti, speaker radiofonici, direttori artistici e tutti coloro che su LinkedIn potrebbe identificarsi come cultural brokers. Il fatto che su quel tipo di trono ora non sieda più questa élite (in senso tecnico, suvvia) ma un’onnipresente e invisibile rete di algoritmi fa porre diverse domande, come: chi o cosa giudica un pezzo di musica, oggi? Gli algoritmi lavorano nell’ombra per organizzare, valutare, giudicare e selezionare i suggerimenti di gusto generati automaticamente – i buoni vecchi “Se ti è piaciuto ascolta anche…” che sulle riviste pur esistevano da prima dell’Internet 2.0.

In atto c’è una guerra: riusciranno i sistemi di valutazione digitale, sempre più sofisticati, a scavalcare i professionisti della comunicazione musicale? Può l’opera di filtraggio e contestualizzazione propria di ogni dj, vj, organizzatore di eventi essere sostituita dalla mano invisibile della tecnologia? Chi, si chiede Lange, è meglio equipaggiato per assicurare alti standard di qualità nella scelta di musica “nuova e rilevante”, in questa enorme e “a malapena navigabile” alluvione di brani musicali che caratterizza il nostro tempo?
Un’altra lotta è quella tra l’1% degli artisti presenti sul mercato negli USA che hanno generato tra l’80 e il 90% dei profitti di quello stesso mercato nel 2012. L’espressione “band emergente” assume ora tutto un altro significato, non è vero? L’industria discografica, comunque, è interessata a trovare degli strumenti efficaci per far sì che le persone riescano ad orientarsi in questo sconfinato cielo anche al di là dei pochissimi astri più luminosi.
L’idea è quella di utilizzare gli algoritmi che si avvantaggiano del web semantico per far conoscere meglio la “coda lunga” di artisti largamente sconosciuti a più persone interessate possibile. Il punto è che stanno diventando sempre più bravi in questo compito, alla faccia del ruolo classico del giornalista musicale, che sfrutta ben altre capacità. A peggiorare le cose ci si è messa la grande democratizzazione corollario della digitalizzazione della musica, che è quella grazie alla quale siamo tutti quissù a scrivere senza soldi e senza vergogna. I blogger scrivono, i blogger giudicano, i blogger disseminano significato nel web – che gli algoritmi raccolgono. Certo, alcuni di questi non-professionisti lo fanno per farsi una risata, per fare hating più o meno gratuito, per “posizionare il loro status sociale e capitale sociale” (che è lingua accademica per dire SCOPARE), e, pensate, c’è addirittura chi lo fa per due soldi due.
Paradossalmente, però, la professione di giornalista musicale pare essere ancora desiderabile, nonostante questa masnada di concorrenti semi-professionisti. A sentire il ricercatore André Döhring, lo si farebbe per vivere il sogno, principalmente: “c’è ancora desiderio di avere la musica nella propria vita, cioè, soprattutto [di viverla] a fianco dei musicisti, liberi dalle convenzioni sociali”. Altra perifrasi accademica per SCOPARE, credo. Naturalmente, anche la parte del tirarsela continua a giocare un ruolo: critici e recensori quando diventano intimi degli artisti si posizionano sulla soglia tra l’industria musicale e il pubblico, acquisendo così una certa autorevolezza (e dunque un certo potere) nel valutare i brani, con le stellette. Stellette che sono un’arma a doppio taglio, in quanto solo una piccola parte dei giornalisti musicali riesce, secondo Lange, a scrivere testi sulla musica che siano degni del Grande Giornalismo.

Ecco, ma che significa essere dei “professionisti del giornalismo musicale”, oggi? Per Lange, si comincia a partire dall’autorevolezza che il singolo giornalista o critico riesce a costruirsi nel tempo. Bene, ma come ci si legittima in questo campo? Quali sono strumenti e tattiche attraverso cui uno finisce per “contare” e venire ascoltato?
La risposta è che “la professionalizzazione nell’industria musicale” tutta “è diventata un paradosso“, dal momento che la musica slegata dal supporto fisico ha generato la contraddizione per cui il mare è diventato enorme e quindi i fari, che dovevano orientare gli altri dall’alto della loro autorevolezza guadagnata sul campo, non sono più in grado di illuminare porzioni ampie di acqua – mentre dall’altro lato, proprio per questo motivo, c’è un maledetto bisogno di fari per navigare bene. Lucine e lucette alternative sono fornite, come detto, da blogger da un lato e dagli algoritmi dall’altro. Che erodono lo spazio vitale della professione stessa. Ricordate la disintermediazione? Invece che pochi, luminosissimi fari, abbiamo tante lanternine che gettano qualche lucetta qui e là. E che nulla possono contro l’ascesa – dal basso – di artisti più o meno deprecabili. (Qui un’intervista di Francesco Locane di Radio Città del Capo a Luca De Gennaro sull’argomento. Qui invece Ciccio Farabegoli che straparla sull’argomento)
Le conseguenze? Come sempre, ci si adatta al mercato. Sia a livello di giornalismo, sia di lavoratori dell’industria musicale nel suo complesso, si va sempre più puntando al glocal. Questo perché si ritiene che gli esperti siano in grado di operare molto a loro agio in una scena ristretta, nella quale possono immergersi anche fisicamente, stringendo utili relazioni sociali in carne ed ossa; ma questo allo stesso tempo fa sì che si diventi miopi e incapaci di guardare al di là del proprio cortile. La prova sta nel seguire i soldi: le major stanno sempre più stabilendo delle “divisioni locali” in giro per il mondo per identificare stili e sottogeneri regionali. Altro che It-pop, il futuro vedrà finalmente riconosciuto l’Abbruzzofolk.
Ma in tutto questo gli artisti che fanno? Distribuiscono – da un pezzo, ormai – la loro musica direttamente, senza passare dai giornalisti o men che meno dai critici. Che restano appunto esclusi, venendo bypassata la funzione di mediazione che tradizionalmente detenevano. La cosa peggiore è che l’approccio diretto musicista-pubblico esclude i giornalisti da quello che normalmente era il quid che potevano aggiungere ai loro giudizi estetici sulla musica: i retroscena. Pensateci, oggi qualsiasi band indie o artista mainstream dialoga in modo diretto con la fanbase via social ed è più probabile che vengano a sapere le chicche più gustose non i giornalisti con l’accredito, ma la ragazzina ventiduenne che su Instagram fa i disegnini con i testi delle canzoni via messaggio privato.
Secondo The Outline, bisogna anche tenere d’occhio Jay-Z, che incarna l’avanguardia dell’industria musicale con ogni sua mossa. Secondo Jeff Ihaza, i critici musicali sono ormai sull’orlo di una crisi esistenziale e questo li porta ad essere “sempre più concilianti” nei confronti dell’artista. Noi che in Italia godiamo da anni delle “interviste” di Fabio Fazio sappiamo bene cosa significhi essere incapaci di critica. I dati quantitativi sono lì a dimostrarlo, il Wall Street Journal ha analizzato centinaia di recensioni musicali riscontrando che quelle negative sono oramai pochine. Il destino del giornalista musicale è dunque quello di diventare poco più che un ufficio stampa, servile nei confronti degli artisti?
Tornando alla professione, vince chi è vicino e chi è dentro. Attraverso “canali informali”, che fa tanto controspionaggio sovietico – ma lo dice la scienza.
Perciò quando Federico Sardo, indubbiamente uno dei migliori giornalisti musicali italiani che si occupa (anche) di roba giovane e pop, ogni santo giorno scrive in quel carnaio di diciottenni ascoltatori di Pop_X che è Diesagiowave non è lì per SCOPARE (oddio, dai, diciamo di no), ma è lì per fare ciò che il suo lavoro nel 2017 richiede: dissemina umilmente opinioni specializzate e suggerimenti d’ascolto in mezzo a una comunità di ascoltatori non altrettanto educata (tra l’altro, Sardo successivamente alla stesura della prima bozza di questo pezzo, ha persino nobilitato il gruppo con un articolo su Noisey). Certo, secondo Lange, però, questa diversificazione delle competenze para-professionali non riesce a favorire la professionalizzazione nell’industria musicale, poiché, banalmente, i nuovi opinion makers, che siano gli ascoltatori o che siano gli algoritmi, sono incapaci di aggiungere il benché minimo valore in termini di qualità al sistema, come invece i giornalisti musicali professionisti sono in grado di fare.
A margine, si registra che Diesagiowave apparentemente nel giro di una decina di giorni è riuscita è creare un neologismo categoriale “Itpop” o “It-pop” che è stato, in pochissimo tempo, ripreso e acquisito da Spotify e riportato su molte testate giornalistiche italiane generaliste. Che dire: un punto in più per il processo bottom-up (ah-ha), un punto in meno per l’autorevolezza dei giornalisti e una patta per Spotify.

Chi vincerà quindi tra le comunità paraprofessionali (blogger) e gli strumenti socio-tecnici non-umani (algoritmi), entrambi definiti da Lange con malcelato sprezzo “democratici”, e le buone vecchie capacità cognitive dei regaz della carta stampata / radio / schermi digitali / tv ? C’è una lotta in corso tra passato e futuro, e quindi per rappresentare lo Zeitgeist niente di meglio di una foto vaporwave di Mario Luzzato Fegiz.
Filippo Batisti
@disorderlinesss
3 pensieri su “Lo dice la scienza: i giornalisti musicali sono finiti”