L’altro giorno il mio amico Sergio mi fa: “Io ci ho messo trent’anni a capire una cosa semplice”.
Per trent’anni, le persone che ho ammirato di più sono stati i cinici, i bugiardi patologici, gli egoisti, i nichilisti. Mi sembrava che, a fronte dell’oggettiva bruttezza del mondo, il loro fosse un segno di maggiore intelligenza, di una lettura più chiara della realtà, di maggiore onestà intellettuale.
Passati i trent’anni, la cosa che ho capito è che è troppo facile rassegnarsi alla bruttezza del mondo, crogiolarsi nel cinismo e nelle piccole vittorie misere da poveri sui poveri, giudicare spietatamente e continuamente, mentire a chi si fa avanti col fianco scoperto e fotografare la realtà così com’è, cioè orrenda. La cosa difficile, la cosa veramente difficile, è sapere perfettamente che il mondo è un posto brutto e complicato e alienato e nonostante questo, proprio per questo, sorridere, cercare di essere gentili con gli altri. Provare empatia, no? Che poi in realtà sarebbe simpatia, compassione.
È un po’ come quando in Questa è l’acqua DFW esorta a sforzarsi “di considerare la possibilità che tutti gli altri nella fila alla cassa del supermercato siano stanchi e frustrati come lo sono io, e che alcune di queste persone probabilmente abbiano una vita molto più dura, noiosa e dolorosa della mia”. O molto più banalmente, quella citazione di Maclaren continuamente riattribuita, che dice “sii gentile, (perché) ogni persona che incontri sta combattendo una dura battaglia”.
Se mi si passa la metafora, Arto Lindsay, per i primi vent’anni della sua carriera, si è dedicato principalmente a fotografare. Il mondo accelerava nella sua spirale di alienazione e disarmonia e lui, dall’East Village newyorchese in cui era tornato a vivere dopo essere cresciuto in Brasile al seguito dei genitori, entrava con l’atonalità ossessiva dei suoi DNA nella seminale raccolta No New York curata da Brian Eno. Scaruffi (…) descrive il suono dei DNA come “l’equivalente musicale di un tic nervoso: la chitarra è […] uno strepito ossessivo alle frequenze più irritanti, la batteria è poco più di un tamburo, suonato in maniera bambinesca e fracassona, vagamente ispirato alle cadenze del teatro kabuki, e l’organo elettronico ripete all’infinito melodie anemiche, secondo la teoria sadica di neuro-elettronica dei Suicide”. Si confronti questo tipo di rottura col precedente discorso sull’empatia e con il tipo di dichiarazioni che Lindsay fa quando parla del presente e auspica per le nuove generazioni “scelte radicali meno individuali e più sociali di quanto sia successo a noi, alle generazioni che li hanno preceduti. Noi ci auspicavamo che il mondo cambiasse attraverso la somma di tanti atteggiamenti individuali, mentre loro devono agire forti cambiamenti sociali, collettivi”.
ZANG TUMB TUMB SBREEENG
A livello musicale, è facile individuare un periodo di passaggio nella produzione di Lindsay dagli esordi a quello che è adesso, il che mina la dicotomia diffusa (perché accattivante anche se semplicistica) tra Scary Arto e Sexy Arto, tra lo spiritato urlatore di balbettii nonsense ed il crooner teatrale della seconda fase della sua carriera. È il momento in cui la melodia e la tradizione musicale della sua adolescenza iniziano a fare sempre più chiaramente capolino; nelle interviste più recenti, la paternità dell’idea viene ricondotta a Sakamoto e agli anni ’90, ma forse il punto di svolta è la collaborazione con Peter Scherer negli Ambitious Lovers e nella produzione di Estrangeiro di Caetano Veloso (1989, volendo individuare un singolo momento si potrebbe prendere questo).
Così, accantonate le numerose collaborazioni (tra i tanti: Lounge Lizards, Golden Palominos, Bill Laswell, John Zorn, Laurie Anderson e lo stesso Scherer), Lindsay inizia a produrre musica da solo – che sarebbe poi a dire, nel suo caso, in compagnia, ma col proprio nome. Circondandosi di esponenti spesso meno noti (ma importantissimi) della musica tradizionale brasiliana da un lato ed elettronica dall’altro, Lindsay riscopre e riscrive le sue radici, ibridando la melancolia jazz del Tropicalismo con l’elettronica e l’irruenza rumoristica e sgraziata della sua chitarra. Le cover straniate di brani classici e più recenti si alternano a composizioni originali, sempre scritte a quattro mani (non dimentichiamoci che il nostro non ha mai imparato teoria musicale – o come suonare la chitarra in senso proprio, se è per questo), in cui su una base tradizionale da una parte si sdraia il cantato malinconico e sussurrato dell’Arto Lindsay interprete maturo (la sua terza vita artistica), dall’altra si innesta costantemente un elemento perturbante, atono, meccanico, risultando in quello che – usando Homi Bhabha assolutamente a sproposito – si potrebbe definire un terzo spazio musicale.
Questa fusione delle diverse anime di Lindsay (e chi ne volesse un compendio può esplorare l’Encyclopedia of Arto, metà selezione del periodo 1996/2004, metà registrazione di un live abrasivo del 2012) si ritrova sincronicamente nell’ultimo Cuidado Madame, primo album di inediti dopo un lungo silenzio (il penultimo lavoro, Salt, è del 2004; qui avevamo recensito Prize, del 2000). Tra tradizione e innovazione, melodia e sgradevolezza, tribalismo e sussurri, il disco è una specie di melancolica considerazione della contemporaneità, un piccolo esempio di grammatica del mondo globalizzato.
Mislay some silver, downpour CHCHCHCHFZZZZZ/ you can’t slip out of this parable FZZZZZZZZZZZZZZZZCHCHCHCH
La formazione che si presenta come Arto Lindsay Trio al Locomotiv di Bologna comprende, oltre al titolare omonimo, il percussionista Marivaldo Paim e il chitarrista Luís Filipe De Lima. Come di frequente nella musica brasiliana, le trame di basso sono sostenute in parte dalle percussioni, più melodiche di quelle cui un ascoltatore occidentale è abituato, in parte dalla chitarra classica a sette corde (da choro o samba). Sulle tipiche strutture ritmiche della tradizione sudamericana fa irruzione la Danelectro a dodici corde di Lindsay, ora sfiorata a disturbare le trame limpidissime dei due musicisti brasiliani, ora sprigionata a sovrastarne i suoni. Non sempre il mélange è riuscitissimo, e rimane il dubbio che un’equalizzazione diversa (e forse la presenza di un musicista ulteriore) avrebbe amalgamato meglio le due parti, che in certi momenti rimangono poco coese. La magia però è che andando avanti nel concerto l’insieme sembra acquisire sempre maggiore coerenza, tra un Arto Lindsay tranquillissimo che sorride tutto il tempo e domanda agli spettatori: “Sono bellissimi? Are you beautiful?”, numerosi siparietti e un pubblico (sorprendentemente non troppo folto) in religioso silenzio di fronte a uno dei live più significativi degli ultimi mesi di concerti in Italia. Qualche cover (una di Oscar Da Penha detto Batatinha, “patatina”, introdotta da una gag sulla pubblicità con Rocco Siffredi, una di Angenor De Oliveira detto Cartola, e peccato che nessuno abbia spiegato a Lindsay lo slang emiliano) e un lungo bis puntellano un’ora e mezza di meraviglia, malinconica e preziosa ma mai escapista e consolatoria.
Molto spesso si dice a sproposito che qualcosa, o qualcuno, ci ha arricchito; come un tic, è quel tipo di espressione idiomatica che ci parla, a cui non crediamo davvero e che anzi diciamo per inerzia, con una sorta di distacco dal suo significato letterario. Qualche volta, per fortuna, capita di trovare qualcuno o qualcosa che ci arricchisce davvero. Il concerto di Arto Lindsay è una di quelle cose, e quanto sarebbe bello che ce ne fossero un po’ di più.
Giorgio Busi-Rizzi