Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. (…) Poi (gli uomini) dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”.
(Gen. 11, 1-9)
Attualmente, si stima che le lingue parlate al mondo siano tra le 3000 e le 10.000 (l’ipotesi più accreditata dice 7102). Sembrerebbe un numero esorbitante e forse è anche vero. Eppure si stima anche che entro il 2100 quasi il 90% di queste lingue potrebbe essere scomparso, dato che già l’85% di esse ha meno di 100.000 parlanti. Il 96% della popolazione mondiale parlerebbe appena quattro lingue: inglese, spagnolo, cinese mandarino e hindi/urdu.
Le maggiori concentrazioni di lingue diverse si hanno nell’Africa Orientale e nella regione comprendente il Sud Est asiatico e l’Oceania: 850 sono le lingue registrate nella sola Papua Nuova Guinea, 520 in Nigeria e almeno 50, insieme a numerosi dialetti, in India. Al contrario, in Europa si trova appena il 3% delle lingue al mondo (di cui 60 nei 28 paesi UE).
Come si spiega un simile squilibrio? E perché una lingua corre il rischio di scomparire? Questo rischio dovrebbe veramente allarmarci?
In un testo pubblicato nel 2001, dal titolo Vanishing Voices (tradotto in italiano come Voci del silenzio), l’antropologo Daniel Nettle e la linguista Suzanne Romaine hanno tentato di rispondere a questi tre importanti interrogativi relativi alla diversità linguistica. Innanzitutto, questa andrebbe collegata a un più generale discorso sulla diversità a livello ambientale: così come le specie animali e vegetali rischiano l’estinzione, se il loro habitat e modo di vivere è minacciato, lo stesso accade per le lingue. Le lingue parlate da piccoli gruppi indigeni la cui sopravvivenza è spesso vincolata all’abbandono delle proprie terre e all’assimilazione con una cultura, invece, numericamente maggioritaria ed economicamente egemone, sono quelle più a rischio. Se si guarda anche indietro nella storia, le più grandi perdite in fatto di diversità linguistica si sono registrate nelle Americhe e in Australia dove, oltre allo sterminio di molti parlanti delle lingue indigene originariamente presenti sul territorio, le popolazioni indiane e aborigene sono state relegate ai margini della società, private della terra in cui vivevano, oltre che delle loro tradizioni e modo di vivere. Il National Geographic ad esempio ha raccontato la scomparsa delle lingue dei nativi americani.
La correlazione tra diversità linguistica e biologica – non a caso Nettle e Romaine parlano di diversità biolinguistica – sarebbe anche testimoniata dal fatto che proprio le zone caratterizzate da una grande varietà di ecosistemi sono quelle in cui è presente un numero maggiore di lingue. Le minacce alla diversità biolinguistica sono rappresentate da tanti fattori ambientali e sociali come deforestazione, desertificazione, sfruttamento delle risorse da parte delle potenze occidentali e tutto il bagaglio del neo-colonialismo. I rischi correlati a questa perdita sono in primo luogo di natura scientifica – i linguisti come i biologi perdono importante materiale di studio al diminuire della diversità – ma, soprattutto, la morte di una lingua equivale a una perdita di patrimonio e conoscenza. Federico Fellini dichiarò una volta che una lingua diversa è una diversa visione della vita. Il che sembra spiegare con parole semplici una grande verità: che ogni lingua cataloga a suo modo quella parte di mondo che conosce e che perderla significherà, di conseguenza, perdere tante possibili chiavi di lettura e informazioni sul mondo. C’è anche chi ha pensato che a tali differenze strutturali si correli una diversità cognitiva. Proprio in Voci dal silenzio, sono riportati numerosi esempi di lingue il cui lessico rappresenta un prezioso sistema di catalogazione di zone del mondo attualmente quasi inesplorate, tra cui le foreste pluviali: se queste lingue dovessero cessare di esistere, anche le informazioni che esse veicolano non sarebbero più parte del patrimonio dell’umanità.

L’Europa non è certo la più grande Babele del mondo, ma questo non significa che sia immune dalla generale preoccupazione dei linguisti relativamente alla perdita di diversità linguistica: piuttosto, sembra essere arrivata a uno stadio di maggiore consapevolezza del problema e, infatti, molte sono le iniziative volte a preservare le lingue attualmente presenti nei territori dei vari paesi europei, anche e soprattutto quelle lingue rimaste in qualche modo fuori dal processo di creazione di stati-nazione tradizionalmente monolingui e che, quindi, non godono di ufficialità o ne godono in modo solo limitato. Tra queste iniziative, vi è quella della Giornata europea delle lingue, il 26 settembre, istituita dal Consiglio d’Europa con il patrocinio dell’Unione Europea, che ha come intento la promozione dell’importanza dello studio e dell’apprendimento di lingue diverse dalla propria e della diversità linguistica, vista anche come parte fondamentale del patrimonio culturale.
Studiare e imparare una lingua è un primo grande passo per la sua preservazione, anche se questa sarà veramente salva dal rischio di estinzione solo quando è quotidianamente utilizzata dai suoi parlanti: proprio per questo, si parla di bilinguismo romantico nel caso dell’Irlanda in cui il gaelico è stato reso obbligatorio a scuola, ma quasi nessuno lo utilizza più correntemente, soprattutto a causa della concorrenza con una lingua più globale e, pertanto, prestigiosa come l’inglese, imposto alla popolazione irlandese nel corso dei secoli passati tramite politiche che ancora una volta hanno portato allo sradicamento della cultura tradizionale e alla soppressione di forme di autonomia. Promuovere lo studio del gaelico può significare riappropriarsi, quindi, di una parte del proprio passato e scongiurare una definitiva morte di questo idioma, ma sarà sufficiente a recuperarne l’utilizzo e la trasmissione?
Nonostante l’esistenza di iniziative come la Giornata delle lingue e nonostante la presenza anche di documenti normativi, su tutti la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie firmata nel 1992 sempre all’interno del Consiglio d’Europa, la situazione europea odierna è certo composita e comunque imperfetta, soprattutto se si considera che la maggior parte dei paesi europei non considera lingue minoritarie le lingue dei migranti presenti sul proprio territorio e che è estremamente difficile fornire una distinzione esaustiva tra lingua e dialetto che permetta, quindi, un conteggio esatto delle lingue parlate in un determinato Stato. La distinzione tra questi due termini e concetti non è infatti tanto di tipo linguistico, bensì politico: per dialetto si intende solitamente una varietà – accezione che rimanda, quindi, a una forma di inferiorità del dialetto – di una lingua, invece, riconosciuta a livello ufficiale. Napoletano, romanesco o veneto sono spesso definite dialetti dell’italiano standard, mentre sardo e friulano vere e proprie lingue, autonome dall’italiano: si tratta, appunto, di una distinzione non priva di problematicità e che comunque è presente in numerosissime zone del mondo oltre l’Italia.
Infine, non tutti i paesi europei hanno firmato e ratificato questa Carta e, se anche lo hanno fatto, la messa in pratica varia notevolmente.
Nella stessa Italia, essendo la tutela delle lingue minoritarie delegata alle Regioni, vi sono forti differenze di trattamento di idiomi diversi. L’Alto Adige è solitamente considerato un esempio abbastanza positivo di bilinguismo italiano-tedesco, mentre lo stesso non si può dire con il sardo, per esempio. La Spagna è solitamente descritta dalla letteratura in materia come una delle realtà più virtuose, vista l’autonomia concessa a molte delle sue minoranze linguistiche, tuttavia le vicende di questi ultimi giorni circa il referendum sull’indipendenza catalana dimostrano che la lingua ha un aspetto fortemente identitario, che viene spesso usato come collante dagli apparati statali ufficiali, come pure dai gruppi minoritari. Nei paesi dell’ex-Unione Sovietica come Lettonia e Ucraina la scelta dell’utilizzo di una lingua rispecchia i rapporti di forza esistenti in un territorio in un dato periodo di tempo: sotto l’URSS la lingua russa fu usata come instrumentum regni, imponendo il russo su larga scala e penalizzando le lingue nazionali. Dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica, ad oggi il russo risulta fortemente svantaggiato e una scomoda eredità del passato – non a caso uno dei pretesti per legittimare l’annessione della Crimea alla Russia sottraendola all’Ucraina fu la (oggettiva) predominanza di russofoni nella zona.
Fornire un quadro esaustivo della situazione europea in materia di diversità linguistica sarebbe forse impossibile. Per ora è sufficiente la presa di coscienza collettiva che un tema come quello della lingua che si parla, apparentemente banale, è invece di cruciale importanza. Il plurilinguismo e la diversità linguistica potrebbero sembrare una tremenda punizione biblica, soprattutto nel mondo fortemente globalizzato in cui viviamo. Al contrario dovremmo vederli come una fonte di ricchezza da preservare.
Intanto, una buona Giornata europea delle lingue a tutti!
Mara Carella
Che bello questo pezzo. Non ho letto Vanishing Voices, ma ho presente Claude Hagège secondo il quale nel mondo ogni anno muoiono 25lingue e se oggi quelle vive sono circa 5.000, fra un secolo saranno la metà, se non cambia qualcosa (Claude Hagège, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2002).
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