Ridotto all’osso – Steven Wilson, “To the Bone” (2017)

“Somewhere on the highway
With a luminous moon
Swimming after dark and then
Awaken to you”

Permanating

 

Steven Wilson, a questo punto, lo conosciamo come uno che non ha paura di prendersi dei rischi. Purtroppo, nell’unica altra recensione di un suo disco che ho fatto per TBU, parlavo proprio del disco proporzionalmente meno coraggioso (Cover Version, con diverse cover coraggiose e diversi brani originali né carne né pesce) dell’artista progressive probabilmente più significativo degli ultimi 15 anni.

To the Bone, il suo nuovo album, uscito il 18 agosto, arriva dopo un periodo di silenzio relativamente breve, a tre anni dall’ultimo LP (Hand. Cannot. Erase., del 2014) e un anno dall’EP (uscito a primavera 2016), ed è stato anticipato da ben cinque “singoli” (su undici pezzi totali – anche se l’uso del termine è molto cambiato): Pariah, The Same Asylum as Before, Song of I, Permanating e Refuge. Per pubblicare il disco, Wilson ha cambiato casa discografica, entrando alla Caroline Records, una branca della Universal, sperando che questo gli portasse un aumento di visibilità, creando scalpore tra i suoi fan, alcuni dei quali non hanno preso bene l’abbandono della Kscope, che pubblica quasi esclusivamente artisti prog: in realtà, visto che Wilson continua a fare quel cavolo che gli pare, musicalmente, il cambio di casa discografica non ha influito minimamente, ma poiché se ne è parlato molto, mi pareva il caso di menzionarlo.

L’album si apre con una citazione del più famoso album prog-pop di tutti i tempi, ovvero The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd: perché sfido chiunque a negare che l’inizio della title track ricorda l’apertura di Time. Il brano, poi, però, parte con un giro di chitarra e batteria quasi spensierato, molto Wilson eppure anche molto fresco. C’è un notevole assolo di chitarra dello stesso Wilson, che qui per la prima volta da parecchio non si avvale di un chitarrista solista (se non in un paio di brani), e alla batteria troviamo Jeremy Stacey, attualmente King Crimson titolare (l’unico dei tre batteristi in forza al Re Cremisi col quale Wilson non aveva ancora lavorato: con Gavin Harrison è stato per anni nei Porcupine Tree, e Pat Mastelotto ha collaborato a Grace for Drowning) e precedentemente con Noel Gallagher (!), nonché fratello del qui co-produttore Paul Stacey. Il testo, poi, caso rarissimo nella carriera di Wilson, non è del polistrumentista bensì di nientemeno che Andy Partridge degli XTC, una delle ispirazioni dichiarate per il disco. Il secondo brano, Nowhere Now, per il quale Wilson ha girato un video discretamente tamarro in Cile, è un rockettino leggero, uno dei rockettini leggeri disseminati da Wilson in mezzo alla produzione generalmente più impegnata dei Porcupine Tree.

Con il terzo brano arriviamo a uno dei punti più alti di To the Bone: Pariah è una ballatona dark, duetto con Ninet Tayeb (già presente sul precedente LP), riflessione sull’alienazione da social network, con tastiere sognanti che riportano alla memoria Kate Bush. Pariah è anche il pezzo da far sentire a quelli che “questo disco non è abbastanza sentimentale”.
The Same Asylum as Before è un rockettone, buon contraltare a Nowhere Now, con un giro di chitarra notevole, che lascia poi spazio a un brano “serio”, Refuge, dialogo tra un migrante ormai disperato e un narratore (presumibilmente lo stesso Wilson), in cui il prog metal riemerge brutalmente con un assolone di chitarra e uno di armonica (già presente nell’opener, e un debutto nella discografia di Wilson).

Veniamo dunque a quello che, pur avendo un ritornello che è a un passo dall’essere un plagio di quello di Mamma Mia degli ABBA, è chiaramente il brano migliore del disco: Permanating è puro pop danzereccio che ti prende la testa e non esce più, pur restando chiaramente wilsoniano nello stile.
Blank Tapes è un intermezzo del quale si poteva fare a meno, in realtà, un breve brano solo tastiere e chitarre sussurrate, ma lascia il respiro sufficiente a immergersi nell’epica People Who Eat Darkness, che racconta i Foreign Fighters, in una rara esposizione politica per Wilson, che finora raramente ha trattato esplicitamente temi di attualità nei suoi brani, ed è anche il brano più pesante dell’album. Si continua con un altro pezzone, Song of I, con ospite la cantautrice Sophie Hunger: è ascoltando questo brano, quando è uscito, che ho capito che l’album aveva davvero del potenziale. Non che avessi dubbi sulla qualità del materiale prodotto da Wilson, ma all’alba del quinto album solista (dopo una decina con i Porcupine Tree) il rischio di veder subbentrare (sic) la noia c’era. Anche Song of I, infatti, è un gioiello pop, ma non liberatorio come Permanating, bensì oscuro, denso e intenso.

Anche nella successiva Detonation troviamo oscurità, affogata nel metal che più ricorda gli ultimi lavori dei PT, e il pezzo cattura pur essendo forse un po’ troppo lungo. Il disco si conclude con l’eterea Song of Unborn, che termina con delle parole sorprendentemente ottimiste: “don’t be afraid to die / don’t be afraid to be alive / don’t be afraid”, che lasciano un barlume di speranza alla fine di un album che sguazza nel presente fumoso del mondo oggi.

To the Bone è un ottimo compendio della produzione wilsoniana, nel complesso, forse non il suo disco solista migliore (disclaimer: i miei preferiti suoi, solisti, sono Grace for Drowning – per ragioni affettive – e The Raven that Refused to Sing), ma almeno il più equilibrato, che prende elementi dai precedenti quattro album e li sintetizza bene in un tessuto sonoro pop prog ispirato, come dichiarato esplicitamente dall’autore, da artisti come Peter Gabriel, Kate Bush, gli XTC e i Tears for Fears, ma anche dai Depeche Mode o dai Radiohead, eppure estremamente personale e, cosa più importante, estremamente onesto. Sebbene ognuno dei precedenti quattro album avesse un suo carattere forte, sembrava quasi che su ognuno Wilson indossasse una maschera (eccetto, forse, su Grace for Drowning, che per la varietà dei brani è una sorta di versione beta di questo To the Bone): Insurgentes è un manifesto di un nuovo post-rock, The Raven that Refused to Sing di un nuovo progressive, e HCE il concept album definitivo di Wilson, primo passo in una nuova direzione (infatti To the Bone ne è una naturale prosecuzione).

Con dei proclami e delle interviste che a me sono apparse inizialmente piuttosto innaturali, Wilson ha affermato, nell’anno precedente l’uscita di To the Bone, di volersi staccare dagli stilemi musicali che lo hanno portato al successo e di volersi lasciare finalmente andare. Ora che ho ascoltato il disco, posso rispondere alla domanda: Steven Wilson si è davvero staccato dagli stilemi musicali che lo hanno portato al successo? .
To the Bone è ancora un disco decisamente wilsoniano e decisamente prog, e continua ad avere una discontinuità tra i brani – come tutti i suoi, escluso Raven – che ne pregiudica, alla fine, la qualità: Nowhere Now, Blank Tapes e (molto a malincuore, perché ha un testo meraviglioso) Song of Unborn non sono all’altezza del resto dell’album.
To the Bone è anche un disco profondamente coraggioso: pezzi come la title track, Permanating e Song of I spiccano per freschezza ed energia, e danno davvero l’impressione che Wilson si possa sentire finalmente libero di essere se stesso, e altri come Pariah e People Who Eat Darkness, pur essendo essenzialmente “more of the same”, sedimentano la grandezza creativa di un maestro progressivo dei nostri tempi.

Per il capolavoro definitivo, però, a quanto pare, dovremo attendere ancora.

Guglielmo De Monte
@BufoHypnoticus

[Fonte immagine in evidenza: stevenwilsonhq.com]

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