Nell’immaginario comune, l’Argentina odierna è uno stato creato negli anni dagli immigrati europei, conosciuto nel mondo per il calcio, il tango e per una capitale che è considerata la Parigi del Sud America. Ma l’Argentina non è solo questo, è un vero e proprio melting pot, composto da discendenti di europei e dei popoli originari. Si stima, infatti, che circa 950.000 persone appartengano ad una comunità indigena, circa il 3% della popolazione argentina (attualmente, i popoli originari registrati presso l’Istituto Nazionale degli Affari Indigeni sono trentuno, di cui i più numerosi sono mapuche, kolla, toba e wichi). Questo numero è il risultato di anni di maltrattamenti tracui due importanti campagne militari messe in atto alla fine del 1800, conosciute come il grande massacro indigeno, che ebbero l’obiettivo di sterminare la popolazione autoctona. I popoli indigeni sopravvissuti a queste campagne militari furono relegati nelle zone più inospitali del paese e messi nel dimenticatoio. Solo nella riforma costituzionale del 1994, lo stato argentino ha ufficialmente riconosciuto “la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni argentini”, garantendone il rispetto dell’identità e il diritto a un’educazione bilingue e interculturale (art. 75). Tuttavia, il riconoscimento a livello formale non significa che la loro condizione sia cambiata a livello sostanziale. Si può infatti affermare che, senza dubbio, i popoli indigeni continuano a vivere nelle zone più inospitali del paese e a essere vittime di un predominio culturale.

Qualche mese fa, per lavoro, ho avuto la possibilità di andare in Chaco, una provincia Argentina (dove per provincia intendiamo uno degli stati che costituiscono la Repubblica Federale Argentina) con un’alta presenza di popolazione indigena, e vedere con i miei propri occhi le condizioni in cui vivono queste persone. Secondo l’ultimo censimento dell’INDEC (Istituto nazionale di statistica e censo della Repubblica Argentina), che risale al 2010, in Chaco 41.304 persone, su un totale di 1.055.259 abitanti, si riconoscono indigene. Si tratta di circa il 3,9% della popolazione della provincia. Secondo l’Istituto di statistica il 74,5% della popolazione indigena si è auto-riconosciuta come Toba, l’11,2% come Wichí e il 9,4% come Mocoví. Di questi il 58,6% vive in zone urbane, mentre il 41,4% in zone rurali. Durante il mio viaggio ho potuto corroborare tutto ciò che mi avevano raccontato sulle zone rurali dove vivono queste comunità, distanti chilometri dalla città, spesso difficili da raggiungere e senza le comodità che offre la città.
Nello specifico, ho conosciuto una parte dell’Impenetrable (Impenetrabile), una grande regione boschiva praticamente vergine di circa 40.000 km² situata nella pianura del Chaco occidentale. Dalla capitale della provincia, Resistencia, ci vogliono circa sette ore di auto per raggiungere il cuore dell’Impenetrabile. 430 km, di cui 180 di strada sterrata e nemmeno una casa all’orizzonte. Senza dubbio Impenetrabile di nome e di fatto. La strada sterrata è difficile da percorrere con un auto che non sia un fuoristrada e il paesaggio da cui si è circondati è composto da enormi alberi, liane e cactus. Gli animali che popolano il bosco sono i veri padroni della regione e non è difficile incontrare armadilli, formichieri, caimani e, se si è più o meno fortunati, dei giaguari. Il mio punto di arrivo era Mision Nueva Pompeya – il cuore dell’Impenetrabile come recita il cartello all’entrata del paese. Si tratta di un paesino dove vivono circa mille persone, tra criollos (così vengono chiamati coloro che discendono dall’unione tra indigeni e spagnoli) e whichì. Strade di terra, un ristorante, una scuola, una vecchia missione gesuita ormai abbandonata e poco più.

Come detto, in questa zona convivono criollos e whichi. Questi ultimi sono un popolo originario che conserva ancora abitudini nomadi. É infatti normale muoversi costantemente nel monte per cercare cibo e legna. La casa tipica è fatta di rami ed è composta da una sola stanza in cui vive tutto il nucleo familiare. La convivenza con i criollos è spesso conflittuale ed è molto difficile entrare in contatto con un membro della comunità, dato che vivono in mezzo al monte, totalmente isolati. Sottolineo che alcune comunità di criollos, sebbene abbiano abitudini culturali diverse, vivono in luoghi altrettanto isolati. Per questo in mezzo alla montagna ci sono piccole scuole che accolgono coloro che vivono in una determinata zona del monte, in modo che i bambini non debbano percorrere chilometri per poter studiare. Si tratta di scuole tutto in uno. In una piccola casetta che fa da asilo, scuola elementare e superiore, i bambini delle materne e delle elementari vanno a scuola di mattina, mentre di pomeriggio arrivano quelli delle superiori. Ovviamente stiamo parlando di numeri ridotti e, infatti, spesso le elementari sono divise solo in due livelli. Fino a qualche anno fa per poter frequentare le superiori si doveva raggiungere Nueva Pompeya, ma ora è possibile continuare gli studi in queste piccole scuole grazie ad alcuni progetti di didattica virtuale. Il governo fornisce ai ragazzi un notebook dove possono studiare i programmi che ricevano online. In base alla collocazione dei vari insediamenti ci sono scuole con solo alunni crillos e altre con criollos e whichi.

Secondo i dati dell’INDEC, l’85,7 % della popolazione indigena è alfabeta. Tuttavia, tra coloro che hanno frequentato un’istituzione scolare, il 52,1% non ha finito le elementari, il 27,6% ha finito le elementari, il 10% non ha finito le scuole superiori, il 6 % ha finito le scuole superiori e solo il 4,4% ha continuato gli studi dopo il diploma di scuola media superiore.
Il punto è che la situazione è molto complessa perché in generale i bambini wichi che vanno a scuola non sanno parlare spagnolo e, di conseguenza, la comunicazione con il docente e l’apprendimento risultano difficili. Per legge, nelle scuole con presenza di alunni aborigeni, dev’esserci un docente ausiliario bilingue aborigeno. In teoria, i docenti aborigeni dovrebbero insegnare la propria cultura e contribuire all’insegnamento bilingue. Purtroppo, a volte, finiscono per essere solo degli interpreti tra il professore criollo e gli alunni. Inutile dire che le difficoltà non sono create solo dalla barriera linguistica, ma anche dalle vere e proprie differenze culturali. Spesso i docenti provano a imporre pratiche relative alla vita quotidiana che i whichi continuano a evitare, perché a loro estranee. I dubbi quindi persistono, questa forma di educazione bilingue funziona? É giusto imporgli lo studio dello spagnolo e della cultura occidentale? É giusto che un docente non indigeno insegni a un gruppo di alunni aborigeni senza essere adeguatamente istruito sulle particolarità di quella comunità ed educato al rispetto di quell’identità? La questione è decisamente complessa e allontanarsi totalmente da una certa forma di colonialismo sembra ancora una meta lontana.
[A parte dove indicato diversamente, le fotografie sono di Sabrina Mansutti]