Ridotto all’osso – Steven Wilson, “To the Bone” (2017)

Ridotto all’osso – Steven Wilson, “To the Bone” (2017)

. Purtroppo, nell’unica altra recensione di un suo disco che ho fatto per TBU, parlavo proprio del disco proporzionalmente meno coraggioso ( , con diverse cover coraggiose e diversi brani originali né carne né pesce) dell’ , il suo nuovo album, uscito il 18 agosto, arriva dopo un periodo di silenzio relativamente breve, a tre anni dall’ultimo LP ( (uscito a primavera 2016), ed è stato anticipato da ben cinque “singoli” (su undici pezzi totali – anche se l’uso del termine è molto cambiato): . Per pubblicare il disco, Wilson ha cambiato casa discografica, entrando alla Caroline Records, una branca della Universal, sperando che questo gli portasse un aumento di visibilità, creando scalpore tra i suoi fan, alcuni dei quali non hanno preso bene l’abbandono della Kscope, che pubblica quasi esclusivamente artisti prog: in realtà, visto che Wilson continua a fare quel cavolo che gli pare, musicalmente, il cambio di casa discografica non ha influito minimamente, ma poiché se ne è parlato molto, mi pareva il caso di menzionarlo. dei Pink Floyd: perché sfido chiunque a negare che l’inizio della title track ricorda l’apertura di . Il brano, poi, però, parte con un giro di chitarra e batteria quasi spensierato, molto Wilson eppure anche molto fresco. C’è un notevole assolo di chitarra dello stesso Wilson, che qui per la prima volta da parecchio non si avvale di un chitarrista solista (se non in un paio di brani), e alla batteria troviamo col quale Wilson non aveva ancora lavorato: con Gavin Harrison è stato per anni nei Porcupine Tree, e Pat Mastelotto ha collaborato a ) e precedentemente con Noel Gallagher (!), nonché fratello del qui co-produttore Paul Stacey. , poi, caso rarissimo nella carriera di Wilson, non è del polistrumentista bensì di nientemeno che , una delle ispirazioni dichiarate per il disco. Il secondo brano, , per il quale Wilson ha girato un video discretamente tamarro in Cile, è un rockettino leggero, uno dei rockettini leggeri disseminati da Wilson in mezzo alla produzione generalmente più impegnata dei Porcupine Tree. è una ballatona dark, duetto con Ninet Tayeb (già presente sul precedente LP), riflessione sull’alienazione da social network, con tastiere sognanti che riportano alla memoria è anche il pezzo da far sentire a quelli che “questo disco non è abbastanza sentimentale”. , con un giro di chitarra notevole, che lascia poi spazio a un brano “serio”, , dialogo tra un migrante ormai disperato e un narratore (presumibilmente lo stesso Wilson), in cui il prog metal riemerge brutalmente con un assolone di chitarra e uno di armonica (già presente nell’opener, e un debutto nella discografia di Wilson). Veniamo dunque a quello che, pur avendo un ritornello che è è puro pop danzereccio che ti prende la testa e non esce più, pur restando chiaramente wilsoniano nello stile. è un intermezzo del quale si poteva fare a meno, in realtà, un breve brano solo tastiere e chitarre sussurrate, ma lascia il respiro sufficiente a immergersi nell’epica , che racconta i Foreign Fighters, in una rara esposizione politica per Wilson, che finora raramente ha trattato esplicitamente temi di attualità nei suoi brani , ed è anche il brano più pesante dell’album. Si continua con un altro pezzone, : è ascoltando questo brano, quando è uscito, che ho capito che l’album aveva davvero del potenziale. Non che avessi dubbi sulla qualità del materiale prodotto da Wilson, ma all’alba del quinto album solista (dopo una decina con i Porcupine Tree) troviamo oscurità, affogata nel metal che più ricorda gli ultimi lavori dei PT, e il pezzo cattura pur essendo forse un po’ troppo lungo. Il disco si conclude con l’eterea , che termina con delle parole sorprendentemente ottimiste: “don’t be afraid to die / don’t be afraid to be alive / don’t be afraid”, che lasciano un barlume di speranza alla fine di un album che sguazza nel presente fumoso del mondo oggi prende elementi dai precedenti quattro album e li sintetizza bene in un tessuto sonoro pop prog . Sebbene ognuno dei precedenti quattro album avesse un suo carattere forte, sembrava quasi che su ognuno Wilson indossasse , che per la varietà dei brani è una sorta di versione beta di questo il concept album definitivo di Wilson, primo passo in una nuova direzione (infatti Con dei proclami e delle interviste che a me sono apparse inizialmente , di volersi staccare dagli stilemi musicali che lo hanno portato al successo e di volersi lasciare finalmente andare. Ora che ho ascoltato il disco, posso rispondere alla domanda: Steven Wilson si è davvero staccato dagli stilemi musicali che lo hanno portato al successo? spiccano per freschezza ed energia, e danno davvero l’impressione che Wilson si possa sentire finalmente libero di essere se stesso, e altri come sedimentano la grandezza creativa di un maestro progressivo dei nostri tempi Clicca per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra) Clicca per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra) Clicca per condividere su Pinterest (Si apre in una nuova finestra)