Quelle di Federico Fiumani erano triple e interne, quelle dei redattori del SundayUp sono invece reali, liberatorie, a volte negate, ma sempre in musica. Otto brani per i quali è necessario munirsi di fazzolettini e aria da sospirare.
Bon Iver, Skinny Love
Sono passati dieci anni da quando Justin Vernon, in arte Bon Iver, regalò all’umanità tutta quel capolavoro sonoro meglio conosciuto come For Emma, Forever Ago. La prima traccia, Skinny Love, è in assoluto una delle canzoni più tristi composte nella storia della musica, sfido chiunque a contraddirmi. Sarà il falsetto di Vernon, sarà il testo (And in the morning I’ll be with you / But it will be a different “kind”), ricordo un freddo viaggio in treno Bologna-Parma passato ad ascoltarla in loop, senza riuscire a smettere di piangere. Reiterazione che ad un certo punto si era trasformata in una sorta di rito soddisfattorio, come quando sei bambino e mamma ti dice “Butta fuori tutto che poi stai meglio”. Questo perché Skinny Love – lo ha spiegato bene Bon Iver a Pitchfork – descrive una presa di coscienza, quella di chi comprende di aver bisogno di una relazione solo per necessità. Ma questo non basta a giustificare un amore, che quindi è skinny, scarno, vuoto, senza alcun peso. E via di lacrime e depressione.
Roberta Cristofori
@billybobatorton
Spiritualized, Always Forgetting With You (The Bridge Song)
Non ho canzoni che mi fanno piangere per se, credo, ho canzoni sulle quali, semmai, mi è capitato di piangere trovandomi già in condizioni emozionali traballanti. Quindi mi trovo in difficoltà a sceglierne una che possa risultare universalmente tale: la mia teoria scema a riguardo è che diversi brani contengano germi capaci di suscitare commozione se adeguatamente preparati a catalizzarli.
Questo, comunque, è un singolo a firma Spiritualized Mississippi Space Program (per avere il vero nome togliete pure le ultime tre parole), cioè Jason “Spaceman” Pierce e compagnia, per il meritorio Space Project della Lefse Records. Oltre a essere un eccellente esempio della poetica di Pierce (parole semplici e dirette, mood mellifluo e disteso, orchestrazioni rock barocche psichedeliche, canto e controcanto) questo pezzo mi colpisce (e mi affonda) per la garbatezza cosmica del climax testuale: se vuoi una radio, sarò una radio per te / se vuoi un aeroplano, ecc. Un cuore solitario, un razzo spaziale, una stella cadente, un altro mondo, un universo intero? Per te posso diventare ciascuna e qualunque di queste cose. Una domata e (letteralmente) sconfinata volontà di incontro, purché sempre insieme a te.
Non sempre i fuochi d’artificio devono essere rumorosi.
Filippo Batisti
@disorderlinesss
Sergio Endrigo, Aria di neve
Piangere sulla musica be’, è un’esperienza piuttosto comune: ma quanto l’emozione dipenda puramente dalla musica, questo non lo so, è materia da neurologi. Ognuno tende a riversare nella musica significati e messaggi che porta dentro di sé, così che le canzoni non diventano altro che semplici specchi di noi stessi. Per quanto mi riguarda sono particolarmente sensibile alle situazioni di solitudine e incomunicabilità: Aria di neve di Endrigo è una delle più toccanti rappresentazioni di questo particolare sentimento. In un certo senso è un’anti-canzone, presenta i classici luoghi comuni sentimentali e subito li prende a sassate (“Sopra le nuvole c’è il sereno / ma il nostro amore non appartiene al cielo”) in modo veramente impietoso (si veda anche l’ultimo, mortale verso). Ma d’altronde “noi siamo qui tra le cose di tutti i giorni”, non in un idealizzato spazio sentimentale.
Sergio Endrigo è nato a Pola, e in canzoni come questa sembra quasi di percepire il dolore per il suo mondo perduto, così denso di passato ma così maltrattato dalla Storia. Questa canzone mi sembra così universale da poter essere dedicata anche a una terra perduta, perché no? Ascoltata in una soleggiata giornata autunnale tra i cipressi e gli ulivi dell’Istria acquista tutto un particolare gusto agrodolce e, a suo modo, caldo e accogliente.
Alessio Venier
Luigi Tenco, Lontano lontano
Potrei parlarvi di quando mi è morto il gatto e ascoltavo a manetta Take me somewhere nice dei Mogwai, canzone che è anche l’inno nazionale della redazione di TBU. Potrei parlarvi di quando da bambini si gareggiava a piangere per primi ascoltando I’ll be missing you di Puff Daddy e Faith Evans, brano dedicato a Notorius B.I.G. ma anche un po’ a Lady Diana, dunque simbolo del dolore assurdo negli anni Novanta. Eppure, possiamo fare di meglio rimanendo in Italia grazie a un Luigi Tenco d’annata.
È il 1966 e Tenco presenta a Un disco per l’estate un brano dall’arrangiamento spensierato – tipico della musica leggera dell’epoca – al di sopra del quale la voce cantautoriale di Tenco costruisce un monumento all’amore irrisolto. Con capacità divinatorie Tenco si proietta oltre, al momento in cui la relazione finita è doppiamente lontana, nello spazio e nel tempo: nella vita della persona (un tempo?) amata piccole, improvvise, epifanie dell’amore perduto scuotono il nuovo equilibrio e riportano indietro. Il moto mnemonico da interno passa all’esterno, al racconto dell’amore passato della donna (o uomo, nella cover della Vanoni) al nuovo compagno. Un rituale che tutti noi abbiamo vissuto viene qui interpretato dal punto di vista dell’escluso, di chi sembra non riuscire ad andare avanti. Ogni possibile apertura del soggetto per il trascorso amore viene, però, bruscamente schiacciato: chissà come e perché/ ti troverai a parlargli di me/ di un amore ormai troppo lontano. Lacrime.
Matteo Cutrì
Lucio Battisti, Sì, viaggiare
La mia pillola lacrimosa ha (ed è) note di ottimismo, perché nella vita quello che conta è essere positivi, anche se questo può portare a essere Jovanotti. Quel gran genio del mio amico con le mani sporche d’olio capirebbe molto meglio; meglio certo di buttare, riparare . Sospette interpretazioni cielline vedono l’amico meccanico come una metafora di Dio, Gesù e relativi compagni di merende (ma non Pacciani, pare). C’è qualcuno, poi, che si rifiuta di respirare “Sì viaggiare” a pieni polmoni perché fonti attendibili come Il Giornale o Il Corriere del Culo sostengono che Lucio Battisti avesse simpatie destrorse (no, falso: una mente malvagia non avrebbe mai potuto partorire questi versi. Il Baffone ha concesso la grazia a pochi e solo a chi crede nei piani quinquennali). In macchina fra Forlì e Faenza, con un senso di solitudine cieca, angosciante, l’abisso e il vuoto che non ti fanno piangere, ma ti impediscono di respirare. Ho armeggiato con la radio, e da qualche equivoca emittente romagnola come Radio Sabbia è fluttuata la flautata voce di Lucio Battisti. E potresti ripartire, certamente non volare ma viaggiare: la versione gentile di “riminchiati” che ti fa piangere come una fontana, sciogliere il nodo e sentire meglio.
Sofia Torre
Amor Fou, Il periodo ipotetico
Ma poi che vuol dire canzoni che fanno piangere? Io non piango per le canzoni (piango per le cose importanti, tipo Masterchef US e Grey’s Anatomy). Così all’inizio ho pensato alla mia canzone-da-pioggia preferita (Svefn-g-englar dei Sigur Ros). Poi a Vattene Amore, in cui il genio di Panella convince tutti che la storia di due tipi famosi che si odiano (con ammicco al Don Giovanni di Mozart) sia in realtà un nonsense melenso su due che si amano tantissimo.
Alla fine mi è venuta in mente la versione acustica de Il periodo ipotetico degli Amor Fou, che in comune con la prima ha l’effetto-presammale (con un riff malinconico ripetuto sopra accordi che cambiano) e con la seconda il fatto che il testo ha bisogno di qualche ascolto perché si capisca bene cosa succede (grossomodo: due che si amano e ci hanno provato devono ammettere che non ce n’è). Forse l’unico pezzo di Raina che riesce senza infastidire a rimanere in bilico tra citazionismo ossessivo, tracotanza lessicale e #disagioh. Piangerone, come dicevano i giovani qualche anno fa.
Giorgio Busi-Rizzi
Nirvana, The man who sold the world
Sarà il riff di chitarra che mi evoca in testa desolate pianure post-apocalittiche, sarà la voce di Kurt Cobain che avete rotto il cazzo con Dio-riportacelo-e-prenditi-Justin-Bieber però Kurt ci manchi, sarà che il vero padre di questo pezzo splendido è pur sempre David Bowie e il vecchio Duca Bianco di cazzate non ne ha fatte mai. Ogni volta che la ascolto o che passa in radio il primo istinto è quello di trovare con calma un angolo buio e una coperta lisa, rannicchiarsi lì e piangere sommessamente tutti i liquidi corporei. Se non fosse che non piango mai, ovviamente.
Giovanni Ruggeri
Mia Martini, I treni a vapore
Chiara Tripaldi
Immagine di copertina: oltreuomo.com
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