L’addio del Fulmine

Sedici stagioni da prodigio indiscusso possono bastare. Per Usain Bolt i Mondiali di Londra 2017 saranno gli ultimi della carriera, quindici anni dopo quei Mondiali Juniores in cui, non ancora sedicenne, vinse i 200 metri nello stadio di Kingston contro avversari più anziani di due-tre anni imponendosi come un talento unico nel panorama dell’atletica di inizio secolo e promettendo di riscrivere diverse pagine di storia della disciplina degli sport. Promesse che, per una volta, sono state mantenute in pieno e in una maniera clamorosa. Non era ancora diciottenne, Bolt, quando partecipò alle sue prime Olimpiadi ad Atene. Si fermò alle batterie dei 200 e fu l’ultima volta in cui lo videro arenarsi prima della finale: l’anno successivo era già ottavo ai Mondiali di Helsinki e nel 2007, ormai dieci anni fa, portava a casa l’argento ai campionati di Osaka alle spalle dell’americano Tyson Gay.

Da lì in poi, la storia è nota: nove stagioni da dominatore assoluto, in una dittatura che per durata e intensità non ha eguali nella storia dell’atletica moderna e probabilmente nemmeno in quella meno recente. Tra 100, 200 e 4×100, Mondiali e Olimpiadi, il giamaicano ha lottato ventuno volte per l’oro spuntandola in 19 occasioni: gli mancano solo la vittoria olimpica della 4×100 di Pechino 2008, annullata di recente per la positività all’antidoping del connazionale Nesta Carter, e quella dei 100 ai Mondiali di Daegu 2011, sfumata per colpa di una falsa partenza. Tutto il resto è finito nelle sue mani, insieme a sette record mondiali assoluti: tre sui 100, due sui 200, due nella 4×100. Va aggiunto all’elenco il primato mondiale under 20 nei 200, un 19’’93 risalente al 2004 che lo rende tuttora l’unico nella storia della categoria juniores capace di scendere sotto i 20 secondi. Gli resta un solo rammarico: non essere sceso sotto i 19 secondi nel mezzo giro, un obiettivo che, dall’alto del suo 19’’19, considerava alla sua portata fino allo scorso anno.

Ci credeva a tal punto che a Rio de Janeiro, nella finale che gli ha assegnato l’ultimo oro olimpico individuale della carriera, si è lasciato scappare una smorfia di disappunto mentre tagliava il traguardo in un “normale” 19’’78. Forse, il campanello che più di tutti gli ha fatto capire che ormai il suo tempo si stava per concludere è stato quello: la discrepanza, per la prima volta, fra le sensazioni provate e il riscontro cronometrico. È stato l’orologio, prima degli avversari, a dirgli che non ci sarebbe più stata un’altra gara in cui sarebbe stato in grado di dominare. Aveva già deciso da tempo che quelli di quest’anno sarebbero stati gli ultimi Mondiali della sua carriera. Ciò che non aveva previsto, probabilmente, era che in Inghilterra non avrebbe corso il primo amore della sua vita, quei 200 che l’hanno consacrato come fuoriclasse molto prima della gara più breve. L’ultima gara su quella distanza resterà la finale di Rio.

Kingston, 19 luglio 2002: l’annunciazione di un predestinato

La sua ultima finale individuale sarà sui 100 e si disputerà oggi, nel quinto anniversario di un’altra finale, corsa nello stesso stadio: quella volta in palio c’era l’oro olimpico e lui, con un capolavoro durato 9’’63, rintuzzò le velleità del giovane connazionale Yohan Blake, intenzionato a prendere il suo posto e respinto con perdite. È troppo stanco, Bolt, per tentare l’ennesima tripletta. I 200 non perdonano, bisogna essere al massimo della forma per vincerli. O la sconfitta è inevitabile, anche per l’uomo più veloce di tutti i tempi: «Correre tre gare, con le batterie, richiede un allenamento che oggi non ho. Mi sono sacrificato tante volte per la tripletta: quest’anno ho deciso di facilitarmi un po’ la vita». Ad aprile Germaine Mason, saltatore in alto argento a Pechino 2008 e suo grande amico, è morto. Un brutto colpo per il morale del giamaicano, già provato da numerosi acciacchi che gli stanno presentando il conto di una carriera sopra le righe. Ma più di tutto, sull’uomo che ha cambiato la storia della velocità, sembra influire una certa stanchezza, accompagnata dalla mancanza di stimoli dopo aver vinto tutto e aver dimostrato di essere il più forte sotto ogni aspetto. Per i record: il 9’’58 nei 100, il 19’’19 nei 200 e il 36’’84 nella 4×100 sono pietre miliari destinate a durare, probabilmente, ancora a lungo. Per il numero di vittorie: 19 su 21, non ci sono eguali nella storia dell’atletica. E per il modo in cui sono arrivate: dominando in maniera imbarazzante tra il 2008 e il 2011, con una straordinaria dimostrazione di classe nel 2012, guidando con il pilota automatico nel 2013 e compiendo un autentico miracolo a Pechino 2015, quando l’americano Justin Gatlin rischiò seriamente di batterlo fino a dieci metri dalla fine. Per poi tornare al dominio assoluto, per quanto in tono minore, a Rio de Janeiro.

Non c’è più nulla da dimostrare, nulla da esplorare. Solo un ultimo 100 da portare a termine più in fretta di tutti gli altri. Sembra facile, in un’annata che, tolto il 9’’82 del ventunenne americano Christian Coleman, sta regalando poco ai cronometri. Eppure, forse la differenza di valori tra Bolt e il resto del mondo non è mai stata così sottile. Il giamaicano dovrà guardarsi dal canadese Andre De Grasse, uno dei più forti sprinter della sua generazione e capace di conquistare l’argento a Rio alle sue spalle nei 200. Ma in lizza c’è anche un fantasma del passato come Yohan Blake: l’unico a soffiargli un titolo sui 100 nel 2011, l’unico a correre un 200 al suo livello (sempre nel 2011, 19’’26 ma con un tempo di reazione allo sparo pessimo che gli impedì di fare il record), l’unico a giocarsela ad armi pari con lui sia nei 100 sia nei 200 nel corso del 2012. L’anno scorso è tornato in una grande competizione, quest’anno può giocarsi l’oro pur non essendo che l’ombra di ciò che prometteva di diventare cinque anni fa. E ci sarà, per l’ultima volta, anche Justin Gatlin. Che, per le sue storie di doping, rappresenta tutto il marcio dell’atletica (a volte anche oltre i suoi demeriti), ma che non ha mai accettato di partire battuto al cospetto del giamaicano. Oltre a un sudafricano, Akani Simbine, che dalla sua ha la regolarità. Non ci sarà lo statunitense Trayvon Bromell, uno dei papabili per raccogliere lo scettro dei 100 metri nei prossimi anni. Un infortunio lo ha messo fuori gioco, per questa stagione.

Insomma, quest’anno il livello dei 100 è il più basso dell’ultimo decennio. Eppure, forse mai come quest’anno Bolt rischia di vedersi sconfiggere. Quasi come se la gara seguisse la parabola dell’uomo che l’ha dominata e rivoluzionata, lasciando solo le briciole a una generazione che è stata la più veloce di tutti i tempi. C’è solo un’arma su cui Bolt può veramente contare, ma è la più letale: il carisma. Sapere di correre contro l’uomo più veloce di tutti i tempi paralizza i muscoli, chiedere a Gatlin che a Pechino lo aveva quasi battuto prima di realizzare che cosa stava succedendo e di perdere gli appoggi decisivi. Il giamaicano conta soprattutto su quello, per strappare l’ultimo trionfo. Prima di dedicarsi alla sua nuova vita: che sia nel calcio (ha intenzione di fare qualche provino), o nell’atletica come tecnico o testimonial, promette di essere meno faticosa della prima fase. «Dormirò fino a tardi, mi rilasserò e finalmente mangerò cose molto poco sane», ha già fatto sapere sulla mattinata del primo giorno da pensionato.

16 agosto 2008: lo sprint entra in una nuova epoca

Il lungo addio del Fulmine è cominciato a giugno. Prima tappa Kingston, dove tutto ebbe inizio. L’11 giugno, nello stadio di casa che lo vide non ancora sedicenne sbaragliare tutti i giovani più forti del mondo, ha salutato i suoi connazionali vincendo i 100 metri in 10’’03 davanti a 35 mila tifosi in un’atmosfera surreale: «È stata una delle mie peggiori gare, non sono mai stato così nervoso. La mia performance non è stata fantastica ma non mi sono preoccupato del tempo. Volevo solo correre davanti ai miei tifosi». Poi uno stringato tour europeo, iniziato a Ostrava il 28 giugno con la vittoria dei 100 e concluso a Monaco con il primo sub 10 (9’’95) della stagione. Al termine, non sono mai mancati giri di pista e celebrazioni. Ora, dopo le batterie del 4 agosto, le ultime gare individuali prima della staffetta 4×100 che il 12 metterà la parola fine alla sua carriera. Un numero di gare ridotto all’osso, come sempre, anche per la stagione d’addio: nonostante sia tra i pochissimi personaggi sportivi veramente destinati a entrare nella storia, Bolt ha limitato la sua azione quasi esclusivamente a quegli spiccioli di tempo (16 minuti e otto secondi secondo Eurosport) che l’hanno visto impegnato a Mondiali e Olimpiadi. Fuori dalla lotta per le medaglie, soprattutto dopo il 2009, le altre apparizioni sono state ridotte al minimo.

Un’eredità pesante

Mentre Bolt prepara il chiodo a cui appenderà le scarpe tra pochi giorni, l’atletica si guarda intorno alla ricerca disperata di un’icona a cui aggrapparsi, quando lui non ci sarà più. Non sono anni facili per la regina degli sport: si fanno sempre meno record mondiali, mentre aumentano le squalifiche per doping, gli scandali e la sensazione di marcio trasversale che colpisce atleti, federazioni e dirigenti. In tutto questo Bolt ha rappresentato, a prescindere dai suoi meriti, il volto pulito e attraente della disciplina. Ben più delle gare emozionanti, gli spettatori in questi anni hanno cercato lo show del fenomeno: le pagliacciate prima della finale, la corsa in solitaria (o le vittorie in rimonta), lo spettacolo a pratica conclusa. Nemmeno l’americano Carl Lewis, probabilmente l’unico in grado di reggere il confronto mediatico con il giamaicano, ha mai monopolizzato così tanto gli interessi del pubblico. Messo da parte il suo catalizzatore, per sopravvivere a sé stessa l’atletica ha bisogno di volti nuovi, di storie nuove. Possibilmente, ma qui il discorso è di tipo culturale, anche di una narrativa nuova: meno record, meno effetti speciali, più competizione. Facile a dirsi, molto meno a farsi, se si pensa che spesso gli atleti di vertice (e Bolt non fa eccezione) partecipano ai meeting solo se sono sicuri che i rivali più forti non saranno in pista a insidiarli.

Insomma, servono formule diverse per convincere qualcuno a interessarsi a uno sport in crisi. E poi serve un ricambio generazionale vero: gli atleti dell’epoca Bolt, per ragioni anagrafiche, sono tutti alla conclusione della carriera. L’americana Allyson Felix punta ad arrivare alle Olimpiadi di Tokyo 2020, ma è tra i pochissimi big già trentenni che può ambire a tanto. Gli altri sono ai saluti: a partire dal mezzofondista britannico Mo Farah, all’ultima grande competizione in pista prima di dedicarsi alla maratona. La giamaicana Shelly-Ann Fraser-Pryce è in fase discendente. Yelena Isinbayeva si è ritirata, Justin Gatlin seguirà: e sia la russa sia l’americano erano sulla cresta dell’onda quando ancora Bolt era un giovane di belle speranze. Si tratta di personalità, prima ancora che di campioni, che non sarà facile sostituire. Anche se qualcosa si muove, soprattutto tra le donne: nella velocità Elaine Thompson e Daphne Schippers promettono di darsi battaglia ancora per anni, nel mezzofondo c’è un gruppo di atlete (Genzebe Dibaba e Almaz Ayana per l’Etiopia, Hellen Obiri per il Kenya, Caster Semenya per il Sudafrica) che stanno scrivendo pagine molto importanti nella storia delle loro discipline. Tra gli uomini, al momento forse il maggior fermento c’è nella maratona. Quella delle grandi città e dei ricchi premi però, non certo quella delle competizioni da medaglia. In più c’è un giovane di 25 anni, forse l’unico che ha la statura per essere, se non il nuovo Bolt, la faccia a cui aggrapparsi dopo l’uscita di scena del giamaicano.

Nascita e ascesa di Wayde Van Niekerk

Mentre Usain Bolt esplodeva alle Olimpiadi di Pechino, in Sudafrica un giovane di 16 anni cercava di farsi strada nel salto in alto, dopo qualche tentativo nel rugby. I risultati erano buoni ma non eccezionali: superava, non di molto, i due metri. Verso fine 2009, mentre il Fulmine festeggiava la tripletta ai Mondiali di Berlino e i suoi record definitivi di 100 e 200, il giovane iniziava ad approcciarsi alla velocità. Tempo qualche mese ed era già in grado di qualificarsi ai campionati del mondo juniores sui 200 metri. Nel 2010, a Moncton (Canada), quel ragazzo che fino a pochi mesi prima sembrava destinato a una mediocre carriera da saltatore superò le batterie correndo in 21’’10, nuovo record personale. Dominò anche la sua semifinale e si presentò ai blocchi di partenza della gara decisiva: chiuse quarto in 21’’02, appena due centesimi più lento del padrone di casa Aaron Brown. La corsa di Wayde Van Niekerk nell’atletica mondiale iniziò così: un ospite entrato dalla porta di servizio, raccattato con qualche mese di allenamenti, a un’incollatura da una medaglia clamorosa in un Mondiale giovanile, dietro a tre avversari bravi ma non eccezionali. Tutt’altra cosa rispetto a quel giamaicano che otto anni prima, nemmeno sedicenne, aveva massacrato dei ragazzi più grandi di due e tre anni e si era consacrato come il dominatore del decennio successivo. Ma fu una scintilla decisiva: «Il fatto di essere passato dall’essere un signor nessuno all’essere quarto ai Mondiali juniores e di gareggiare così bene mi ha fatto capire che potevo fare bene sulla scena mondiale», racconterà in seguito. È così.

Già l’anno successivo, Van Niekerk diventa un atleta in grado di scendere sotto i 10’’50 (10’’48) nei 100 e soprattutto sotto i 21 nei 200 (20’’57). Per un neofita, tempi di valore. Il problema è che i muscoli del giovane talento sono di cristallo. Il ragazzo, nel 2011, è tartassato da infortuni. La sua fragilità non è una novità: nato prematuro alla 29esima settimana, pesava meno di due chili e in ospedale si chiedevano se fosse in grado di passare la notte. Il rischio, ora, è che il suo potenziale resti tappato dalle troppe soste in infermeria. Come per Usain Bolt, anni prima: nel 2004, l’anno delle Olimpiadi di Atene, il Fulmine non brillò nelle grandi competizioni proprio a causa di un infortunio che prima gli impedì di partecipare ai Mondiali juniores e poi di andare oltre le batterie dei Giochi. Ma Bolt, in quella stessa stagione, riuscì comunque a far segnare un clamoroso 19’’93 che lo consacrava come il miglior talento giovanile a memoria d’uomo. Van Niekerk ha belle speranze ma resta una scommessa. Così per il giamaicano nel 2005 arrivò il momento di farsi allenare da Glen Mills: una leggenda vivente, allenatore della nazionale giamaicana a partire dagli anni Ottanta e capace di far vincere, due anni prima, i campionati mondiali al nevisiano Kim Collins. L’allenatore migliore, per il velocista più talentuoso.

Per Van Niekerk non si muove nessun guru. È lui a cercare qualcuno che voglia seguirlo. E si rivolge a una figura che non potrebbe essere più lontana da Mills: la signora Anna Sofia Botha, di anni 70, nonna in procinto di diventare bisnonna. Lei sa benissimo che si trova davanti un talento puro, di un livello che non ha mai visto. Non sa se sarà all’altezza. Eppure, quando arriva l’ora delle scelte, si prende responsabilità enormi. La prima e la più importante: convincerlo a mettere da parte lo sprint per dedicarsi ai 400, per evitare di farsi soffocare nella spirale degli infortuni. Funziona perfettamente. E per quanto possa sembrare incredibile, basta una manciata di stagioni per trasformare la bisnonna e l’atleta di cristallo in una delle coppie più formidabili dell’atletica contemporanea. Nel 2013, Van Niekerk è già in grado di scendere a 45’’09 sul giro della morte, a un passo dal gotha della specialità. Si qualifica per i Mondiali di Mosca, viene eliminato in batteria. Di nuovo, per trovare un talento in grado di bruciare le tappe, bisogna guardare altrove: in direzione Grenada, dove c’è il coetaneo Kirani James che l’anno prima, alla tenera età di vent’anni, ha già saputo conquistare l’oro olimpico. Per Van Niekerk, il viaggio in Russia è più che altro l’occasione di vedere dal vivo il fenomeno Bolt. Ma non c’è fretta. Nel 2014, anno senza competizioni di livello assoluto, scende fino a 44’’38 e riprende contatto con i 200: 20’’19, a dimostrazione che la velocità di base non se n’è andata.

E si arriva al 2015, l’anno della consacrazione fra i grandi. A giugno ottiene il primato sudafricano dei 300, coprendoli in 31’’63. Il 4 luglio, per la prima volta in carriera, scende sotto i 44 secondi: 43’’96, quel tanto che basta per strappare il biglietto per i Mondiali di Pechino con il terzo miglior crono dell’anno. Pochi giorni dopo, con 19’’94, abbatte anche il muro dei venti secondi nei 200 metri. In Cina, sui tre turni dei Mondiali, si vede quello che forse è il livello medio più elevato di sempre nei 400 metri. Diciotto atleti scendono sotto i 45 secondi già in batteria, tra loro c’è Van Niekerk. Che non ha problemi nemmeno in semifinale, pur senza strafare. La finale è stellare: ci sono il campione olimpico di Pechino 2008 LeShawn Merritt e il campione olimpico in carica Kirani James, oltre all’outsider Isaac Makwala. Van Niekerk li aggredisce fin dallo start: James, interno, lo vede scappare via senza poter far niente per riprenderlo, mentre Merritt, esterno, lo vede sbucare dopo la seconda curva. È troppo tardi: Van Niekerk, passato in 31’’4 ai 300, è ormai lanciato verso la vittoria. Con un tempo, 43’’48, che lo piazza fra i migliori di sempre. Dopo il traguardo collassa al suolo esausto. Se Bolt, a fine gara, si concede un’esultanza fatta di balletti e di show in favor di telecamera, il sudafricano abbandona il Nido d’Uccello in barella, in direzione ospedale.

Ma ormai la strada è tracciata. Ed è una strada lastricata di gloria. L’anno successivo, già a marzo, il sudafricano torna a correre i 100 dopo cinque anni di astinenza. Chiude in 9’’98 e diventa il primo uomo nella storia a correre i 100 sotto i 10, i 200 sotto i 20 e i 400 sotto i 44. Non gli basta. Gli manca ancora una gara, per far capire al mondo che c’è un nuovo re.

Wayde Van Niekerk vince il suo primo oro mondiale

Una nuova era

Quella gara arriva il 14 agosto 2016, alle Olimpiadi di Rio de Janeiro. Nella notte brasiliana, l’ospite più atteso è un giamaicano all’ultimo 100 olimpico in carriera. Mezz’ora prima, però, è il turno dei 400 metri maschili. Stavolta, per qualificarsi, Van Niekerk si è dannato molto di meno. Si è concesso anche un lusso: quello di arrivare secondo nella sua semifinale. Pigrizia che paga con l’ottava corsia in finale, poco ambita dai quattrocentisti: l’atleta più esterno è visto da tutti, ma non vede nessuno. È un punto di riferimento senza punti di riferimento. Insomma, non sa come sta andando finché qualcuno non lo supera e, se qualcuno lo supera, sta comunque andando troppo piano. Van Niekerk, nella notte di Rio, non ha bisogno di punti di riferimento.

Vola via dai blocchi e il resto del gruppo sparisce. Lo inseguono solo due figure: James e Merritt che, scottati dall’esperienza dell’anno precedente, decidono di non lasciargli margine prima dell’ultimo rettilineo. Il primo a passare a metà gara è Merritt in 20’’4, un tempo eccezionale. Ma poi l’americano cala e con lui il grenadino: Van Niekerk è in leggero vantaggio, quando passa ai 300 in 31’’0: un altro passaggio incredibile, quattro decimi più rapido dell’anno precedente. Sugli ultimi cento metri James e Merritt ingaggiano un corpo a corpo per l’argento: la spunta il grenadino, 43’’76. Ma tutti gli occhi sono puntati su Van Niekerk, che va al doppio della velocità. Quando super le fotocellule, il tabellone dice 43’’03. È record del mondo, per 15 centesimi. Il primatista detronizzato, Michael Johnson, commenta alla tv e resta senza parole. Van Niekerk è senza fiato e senza parole. Stavolta non collassa, ma è sopraffatto da quello che ha fatto.

Quando una manciata di minuti dopo entra in campo Bolt, gli occhi tornano a puntarsi sul protagonista annunciato. Che vince, senza lasciare scampo a nessuno. Ma ormai molti sanno che di quella notte, ai posteri, non verrà tramandata la sua cavalcata trionfale bensì un’altra, lunga 43 secondi e un soffio. Il Fulmine lo sa e si complimenta in pista con l’uomo che l’ha oscurato: «A parte me, era l’unico che poteva fare un numero così». I due non potrebbero essere più diversi: basta vedere l’espressione timida del sudafricano sul podio, rispetto all’atteggiamento sbruffone del giamaicano. O la faccia sconvolta di Van Niekerk dopo il suo primo record, paragonata con quella del Bolt che nel 2008 fermò il cronometro di Pechino sul 9’’69 mentre già aveva le braccia alzate.

14 agosto 2016: la notte del passaggio di consegne

C’è però un punto di contatto tra i due, un’ironia del destino. All’inizio della carriera, Bolt era un talento cristallino sui 200 e prometteva molto bene sui 400. Prometteva talmente bene che non era escluso che il suo futuro potesse essere proprio sul giro della morte. Non è andata così e il suo miglior tempo è rimasto un 45’’35 siglato quando ancora doveva compiere 18 anni. Mese più mese meno l’età che aveva Van Niekerk quando scoprì di essere forte sui 200: lui aveva una grande velocità di base e presto si trovò a cimentarsi sui 100, ben prima di passare ai 400. A pensarci adesso, e sapendo come è progredita la loro storia, viene da sorridere. Molto del merito, come sempre in questi casi, è degli allenatori. Di quel Glen Mills che ora cerca di convincere Bolt a rimanere in pista anche dopo il suo ritiro e di quella Ans Botha che non si perde un allenamento del suo pupillo e del gruppo di velocisti che gli ha costruito intorno. Che siano a Pretoria o a Gemona del Friuli, lei non stacca mai gli occhi dai suoi atleti. E loro, Van Niekerk compreso, le obbediscono come dei soldatini: «Quando gli dico “devi fare questo, questo e questo”, lui non si lamenta mai, mai – racconta lei -. A volte soffre davvero, quindi mi dice: “so quali sono i nostri sogni e i nostri obiettivi e farò ciò che mi dici di fare”». Se non è venerazione, quella del sudafricano per la sua allenatrice, poco ci manca. Incide anche un grande affetto reciproco: «Non ci vede come atleti o come persone, ma come i suoi bambini», riferisce lui.

Forse è anche per quell’aria da nonna, più che da allenatrice, che Ans Botha a volte si trova in difficoltà quando deve entrare nello stadio per complimentarsi dopo una sua vittoria: gli staff della sicurezza proprio non riescono a vederla come un’allenatrice. Dovranno farci i conti sempre più spesso. Perché dietro Van Niekerk c’è un movimento che si sta sviluppando. Il Sudafrica, e non solo quello, sta emergendo dopo decenni di crisi del continente nero nella velocità. Il primato mondiale ottenuto da Wayde è il primo nella storia conquistato da un atleta africano in una distanza inferiore agli 800 metri. Proprio mentre la Giamaica, esaurita la spinta degli Asafa Powell e degli Usain Bolt, si trova in difficoltà di ricambio generazionale. E questo è ancora un altro dei tanti elementi che stanno dietro all’avvicendamento tra i due dominatori.

È passato quasi un anno dalla notte di Rio. E per quasi un anno è andato avanti un lunghissimo passaggio di testimone tra il vecchio fuoriclasse e il nuovo campione. La notte di Kingston, mentre Bolt salutava il suo pubblico, Van Niekerk faceva siglare il suo nuovo primato personale nei 200 metri: 19’’84. Quest’anno a Londra corre per la doppietta 200-400 e ci ha tenuto a farlo sapere proprio a casa del re indiscusso. A Ostrava, nei minuti in cui Bolt inaugurava il suo tour d’addio all’Europa, Van Niekerk siglava la miglior prestazione mondiale sui 300 metri: 30’’81. «Mi piacerebbe sfidare Van Niekerk sui 300 metri», aveva detto il Fulmine un anno fa. Quell’auspicio non si è mai avverato. Ma difficilmente questo Van Niekerk avrebbe perso contro questo Bolt. A Monaco Bolt è sceso per la prima volta nel 2017 sotto i 10 secondi e nello stesso evento Van Niekerk ha ingaggiato un duello strepitoso sui 400 con il botswano Isaac Makwala, antipasto di ciò che potrebbero essere le finali olimpiche di 200 e 400 quest’anno.

Insomma, il sudafricano sta pian piano prendendo il posto del giamaicano. Quanto riuscirà a farlo nel cuore della gente, lo si capirà dopo questi dieci giorni di agosto. Dalla sua ha la possibilità di sfondare un muro, quello dei 43 secondi nei 400, che è di enorme valore simbolico. Contro di lui gioca tutto il resto: l’impossibilità di eguagliare il numero di vittorie del giamaicano, innanzitutto. Il fatto che i 400 siano, a torto, meno esposti mediaticamente dei 100 metri. E il fatto che un dominio così, fatto di sole vittorie o quasi, è difficilmente ripetibile: con ogni probabilità, Van Niekerk andrà incontro a qualche sconfitta in carriera. La sua superiorità rispetto agli avversari è netta ma non così devastante come quella del primo Bolt. E i quattrocentisti, spesso, hanno vita breve. D’altra parte, però, Van Niekerk ha passato tutta la sua carriera da outsider. Da quando venne al mondo e l’obiettivo era superare la notte, a quando scoprì quasi per caso di non essere un saltatore ma un velocista, per finire sul tetto del mondo. Tirarcelo giù, ora, non sarà uno scherzo per nessuno.

Riccardo Rimondi

@RkRBo90

Per continuare a seguire tutti gli aggiornamenti dai Mondiali di Atletica di Londra, consigliamo Banditi e campioni, il blog curato da Riccardo dedicato alla manifestazione.

 

[L’immagine di copertina è tratta da indianexpress.com/AP Photo/Julio Cortez]

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