“Aprite i vostri cuori e le vostre menti, lasciateli entrare.”
“Richiedere asilo è un diritto umano.”
“Quanti altri bambini devono ancora essere violentati per dire NO alla detenzione dei minori?”
“Chiudete Manus e Nauru.”
Sono solo alcune delle frasi riportate nelle centinaia di cartelli esposti dai cittadini australiani di fronte al Dipartimento per l’Immigrazione di Sydney, durante una protesta avvenuta nel febbraio 2016. Frasi che proclamano solidarietà nei confronti dei richiedenti asilo, in un Paese che non ha dimenticato le sue origini multietniche, intrise della cooperazione e pacifica convivenza di persone di nazioni diverse. Attualmente, la popolazione dell’Australia è composta per il 92,5% da immigrati. Nove australiani su dieci hanno origini straniere: principalmente inglesi, ma anche italiane, tedesche e olandesi. L’immigrazione e l’accoglienza dei rifugiati politici hanno sempre giocato un ruolo fondamentale nelle dinamiche sociali e politiche dell’Australia, rendendola nel corso dei decenni meta privilegiata di centinaia di migliaia di persone in cerca di una vita migliore. Negli ultimi anni, tuttavia, stabilirsi in modo permanente nel più grande Stato dell’Oceania si è rivelata un’impresa sempre più ardua. Per la maggior parte dei migranti, anche solo posare un piede sul suolo australiano rappresenta un sogno irraggiungibile.
No way. They won’t make Australia home.
Non faranno dell’Australia la propria casa. Le politiche per l’immigrazione adottate dal governo di Canberra negli ultimi cinque anni potrebbero essere riassunte con questa unica frase, slogan di una campagna di sensibilizzazione promossa dal Dipartimento per l’Immigrazione e la Protezione dei Confini nel 2014. La stretta nei confronti degli sbarchi ha subito una decisiva flessione nel 2013, con l’insediamento di Tony Abbott come Primo Ministro. Da quel momento, lo sbarco di profughi sul suolo australiano si è ridotto dai 20.500 del 2013, ai 160 del 2014 fino ad arrivare ai soli 4 del 2015. Un gran risultato, verrebbe da pensare. I più feroci sostenitori della fermata ad ogni costo degli sbarchi sul suolo europeo, potrebbero suggerire di adottare le politiche del governo Turnbull (successore di Abbott) anche nel Vecchio Continente e “risolvere” così il problema degli sbarchi: ma la realtà della situazione australiana va oltre i numeri scritti nero su bianco nei rapporti del DIBP.

“Se la protezione dei nostri confini richiede l’incarcerazione di neonati, l’abuso sessuale di bambini, lo stupro di donne e l’uccisione di uomini, allora di tutte le Nazioni siamo la più depravata.”
Un altro manifesto dà voce alle opinioni degli australiani, che nel corso degli anni sono scesi in piazza più volte per protestare nei confronti delle misure adottate dal loro governo. In questo caso specifico, esso si riferisce alla Offshore detention, riportata in “auge” dalla sinistra laburista guidata da Rudd nel 2012, a distanza di quattro anni dalla sua sospensione. La Offshore Detention consiste nella detenzione dei profughi che raggiungono le coste australiane via mare in strutture dedicate, poste all’interno di isole limitrofe come Nauru o nella vicina Papua Guinea, con la quale il governo australiano ha all’attivo una lucrosa convenzione. Secondo quanto riporta il Rapporto annuale stilato da Human Rights Watch, la Papua Guinea avrebbe ricevuto nel solo anno 2015 più di 556 milioni di dollari dal governo australiano per la gestione del centro di detenzione di Manus Island. Cifre imbarazzanti, se paragonate alle condizioni nelle quali gli “ospiti” si trovano realmente a vivere.

Dalla riapertura della “prigione” di Nauru nel 2012, diverse ONG e associazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International e l’UNHCR, hanno denunciato le catastrofiche condizioni di vita sull’isola del Pacifico. Un’inchiesta condotta dal Guardian, intitolata “The Nauru Files”, ha in seguito portato alla luce uno spaccato nudo e crudo della quotidianità a Nauru attraverso più di 2000 incident reports, ovvero schede compilate dallo staff del centro per segnalare incidenti di varia entità dal 2013 al 2015. Il risultato è stata la scoperta di centinaia di casi di violenze, autolesionismo, aggressioni, minacce e addirittura abusi sessuali ai danni di bambini. Una realtà sconvolgente, che ha scosso l’opinione pubblica australiana e fatto tremare il governo Turnbull. Proprio Malcolm Turnbull, entrato in politica nel 2004 da fiero promotore dell’ampliamento dei programmi sull’immigrazione, ora batte il ferro della chiusura dei confini e della priorità ai lavoratori australiani sulla scia del conservatorismo trumpiano, mentre oltre i confini nazionali centinaia di migranti vivono di stenti nei centri di detenzione. In un’intervista rilasciata sempre al Guardian, il dott. Peter Young, psichiatra ed ex-direttore della sezione Salute Mentale dell’International Health and Medical Services, che si occupa di garantire le cure mediche nei centri di Nauru, Christmas Island e Manus Island, ha descritto il sistema di detenzione utilizzato dal governo di Canberra come finalizzato alla distruzione della salute psico-fisica dei rifugiati. Essi, schiacciati dalle misure coercitive impiegate quotidianamente contro di loro, finirebbero per abbandonare il proposito di raggiungere l’Australia. Misure che, come sottolinea il dott. Young, non solo compromettono l’etica dei medici e degli operatori sanitari che lavorano nei centri, ma sfociano nella vera e propria tortura. Lo psichiatra ha inoltre paragonato la detenzione nei centri a quella nelle carceri, evidenziando come la prima abbia un effetto ancor più devastante sulla salute mentale dei detenuti. La certezza della fine della pena e la possibilità di tenere seppur minimi contatti con le famiglie, permettono ai carcerati entro i confini di Stato di tenere viva la speranza. Per i rifugiati di Malus e Nauru, niente di tutto questo è possibile. I contatti con il mondo esterno sono ridotti allo zero, e la data in cui abbandoneranno i centri è sconosciuta. L’impatto di tale situazione sulla salute mentale di questi uomini, donne e bambini è incalcolabile.
Dal 2012, più di 1900 adulti sono stati trasferiti nel centro di Nauru, insieme a circa 300 bambini. Almeno 150 di essi potrebbero essere ancora presenti nel centro, ed altri 100 potrebbero presto raggiungerli.
Il lato economico

Il fermo proposito dei governi susseguitisi a Capital Hill a partire dal 2012, ovvero quello di porre una fine agli sbarchi sulle coste del Paese, è stato raggiunto. A quale costo? Ce lo rivela il Rapporto redatto dall’Unicef, intitolato appunto “At What Cost”, che analizza il costo delle misure restrittive adottate dall’Australia negli ultimi anni sia in termini economici che di vite umane. Dal Rapporto emerge che la Offshore Detention, oltre ad essere una vera e propria misura “carceraria” che poco ha a che fare con il rispetto della dignità e della vita dei rifugiati, è anche parecchio dispendiosa. Nel triennio 2013–2016, il solo centro di Nauru è costato all’Australia circa 3,6 miliardi di dollari. Più della metà del costo dell’intera In Shore Detention, pari a 5,6 miliardi. I rimpatri via mare sono costati 295 milioni, a cui vanno ad aggiungersi i 112 milioni riguardanti altri programmi, per un totale di 9,6 miliardi di dollari. Un cifra alla quale bisogna aggiungere le spese sostenute dal Governo australiano per la difesa e la promozione delle sue politiche migratorie, fortemente criticate non solo sul lato economico, ma soprattutto su quello umano. Il falso pretesto della necessità di arrestare il numero di morti in mare a causa della migrazione clandestina ha con il tempo perso validità: come sottolineato nel Rapporto, il perseverare nelle politiche attuali potrebbe causare all’Australia un grave danno d’immagine, ledendo la sua reputazione di Paese rispettoso dei diritti umani. Ripercussioni potrebbero presentarsi sul piano internazionale, riducendo le possibilità dello Stato di prendere parte allo UN Human Rights Council o di influenzare problematiche riguardanti i diritti umani.
E gli immigranti regolari?

Se la vita di chi prova a raggiungere le coste dell’Australia con imbarcazioni di fortuna è difficile, non si può dire diversamente di chi raggiunge il Paese provvisto di tutti i documenti necessari. La stretta sull’immigrazione clandestina ha avuto una inevitabile ripercussione anche su quella regolare, riducendo sempre più la possibilità per i normali cittadini di stabilirsi permanentemente in Australia.
Per poter lavorare nel paese oceanico è necessario procurarsi un Working Holiday Visa o uno Sponsor Visa. Chi decide di trasferirsi in Australia per scappare dalla disoccupazione crescente (come tanti giovani italiani) con un Working Holiday Visa finisce spesso per scontrarsi con la dura realtà delle farms, aziende agricole in cui gli immigrati lavorano per ottenere il rinnovo del visto, spesso per salari di molto inferiori a quelli pattuiti e in condizioni disumane. È l’unica via da seguire per chi non ha la possibilità di accedere allo Sponsor Visa, detto anche 457 Visa, che consente una permanenza di 2 o 4 anni. È qui che la stretta del governo sull’immigrazione regolare si è fatta sentire maggiormente. Le professioni riconosciute sono passate da 651 a 435, sancendo l’impossibilità per tantissimi lavoratori di accedere al visto. Inoltre, lo Sponsor Visa verrà sostituito a Marzo del 2018 dal TSS (Temporary Skill Shortage), che prevederà la divisione delle occupazioni accettate in Short Term e Long Term Occupations. I lavoratori appartenenti alla prima categoria potranno effettuare un solo rinnovo del visto, di durata biennale, al termine del quale dovranno abbandonare il Paese . Gli unici a poter realmente sognare un futuro lavorativo in Australia saranno così i lavoratori delle Long Term Occupations, che potranno richiedere la residenza permanente.
È così che nel giro di pochi anni l’Australia si è trasformata da caposaldo dell’accoglienza a fortino impenetrabile, dove chi affida la propria vita ad una barca in mezzo al mare finisce dietro le sbarre o viene dato in pasto a coloro da cui stava scappando, mentre chi prova ad entrare per vie legali trova quasi solo porte chiuse. A meno che non si tratti di quelle delle farms.
Ilaria Palmas
[L’immagine di copertina è tratta da Gilbertson VII, via UNICEF]