Sean Spicer si è dimesso da portavoce della Casa Bianca ieri, nella serata italiana. Non sarà ricordato per i meriti inerenti al suo lavoro, considerando che, in generale, il ruolo di Press Secretary non è particolarmente rilevante: chi si ricorda di Robert Gibbs, Jay Carney, o Josh Earnest, che hanno ricoperto questo ruolo sotto Obama? Nessuno, neppure in Nordamerica.
Spicer si è reso interessante non tanto per essere una versione irl più malvagia e altrettanto sprovveduta del Mike McLintock di Veep-iana memoria, quanto per essere stato una delle tre figure di riferimento del Grande Argomento che ci appassiona da ormai circa nove o dodici mesi a seconda di come contate: la post-verità, QCS (Qualsiasi Cosa Significhi).
Nelle bozze di The Bottom Up giace un mio siluro di troppe battute sull’argomento (che a questo punto vedrà la luce postumo o dopo la mia morte, a seconda di quale evento si verificherà per primo) e dunque per ora rimando al contributo di Fabrizio Mezzanotte a riguardo. Qua voglio invece fare solo un po’ di cronaca e di puntualizzazioni.
Spicer e i “fatti alternativi”
Serie tivù come Veep mostrano, molto probabilmente con più verosimiglianza del ben più celebrato House of Cards come funzionano certi meccanismi tra back office e front office della politica di alto livello, di certo non solo statunitense, per quanto ogni cultura politica abbia le sue peculiarità. In breve: Spicer, poggiandosi supinamente sul canovaccio comunicativo trumpiano (esagerare, non chiedere scusa, esagerare ancora), dopo la cerimonia del giuramento del nuovo POTUS (sì, quella di Melania intristita che fa il sorriso di circostanza), si è presentato sul palchetto smentendo le cifre – e le fotografie, soprattutto – circa le persone presenti all’evento di gennaio 2017. Secondo calcoli verosimili, un terzo rispetto all’Obama del 2009. Secondo Spicer, “il pubblico più numeroso di sempre che abbia partecipato a una inaugurazione [presidenziale], sia di persona, sia in giro il mondo [cioè in tivù o su internet; o via radio!]”.
Esattamente come nella sitcom di Julia Louis-Dreyfus, qualcuno nell’Ala Ovest deve aver imprecato e scosso la testa, sentendo le parole di Spicer e ascoltando le reazioni dei giornalisti. Hanno perciò pensato bene di organizzarsi e mandare in tivù Kellyanne Conway, consigliera di Trump, a mettere una pezza sulla mossa goffa del portavoce. Quell’opera – fisiologica, in politica – di ritrattazione ha invece aperto un abisso finanche ideologico sulla faccenda, piuttosto che chiudere l’incidente col più classico dei “ma no, siamo stati fraintesi”.
Conway, con una certa mancanza di leggiadria, si è difesa in seconda battuta dicendo che Spicer aveva offerto dei “fatti alternativi rispetto ai fatti riguardo quella cosa [le persone presenti all’inaugurazione]”.

Nel video, intorno a 2’00, è evidente come Conway esiti vistosamente prima di sputare quel rospo, e come il suo linguaggio del corpo immediatamente successivo sia quello di una persona in difficoltà, con tanto di deglutizione a cui mancava solo il glomp! dei fumetti di una volta.
Da qui la domanda: queste prime due figure, Spicer e Conway, assise alla destra e alla sinistra del Padre della post-verità, hanno fatto di testa loro nell’infilarsi in questo ginepraio politico & generatore di conferenze filosofiche di dubbio livello nel mondo intero oppure hanno interpretato alcune massime proveniente dallo staff del Presidente rispetto ai rapporti coi media (inutile ricordare che Trump ha battezzato come”fake news” alcuni dei maggiori e più rispettati giornali ed emittenti nordamericani) e, in generale, rispetto a come questa amministrazione vuole rapportarsi alla verità come concetto ontologico?
Si tratta di un Mike McLintock incapace di assolvere alla propria, dopotutto non criticamente importante, funzione e che livorosamente spara col SuperLiquidator sui reporter come nell’imitazione del Saturday Night Live, o di due attori più o meno nella parte di una strategia di ampio spettro? C’è anche da dire che Conway fa/faceva la sondaggista: mi perdonino i colleghi dell’ormai memificato Masia, ma per fare quel mestiere è necessario maneggiare un concetto di “fattualità” molto elastico. (il che, nelle sue premesse, non è neppure un male).
Un cambio di rotta?
Intanto, intorno a Trump (se vi piacciono le frasi che finiscono con un punto esclamativo, fatevi un giro sul suo Twitter! Davvero!) si sta ancora giocando sulla questione, mesi dopo. Con tanto di possibile cambio di lessico, da #fakenews a #fraudnews. Da falso a frode: la tesi è così sicuramente depotenziata, almeno a livello semantico immediato. La falsità è immediata, autoevidente, e ad ogni modo smentibile dai fatti – o dai fatti alternativi, QCS.
La frode è qualcosa di più complesso, mette in luce il fatto che ci sia, a monte, un’intenzione di ingannare senz’altro premeditata: la butta, insomma, sul soggettivo (persona che mi vuole ingannare, in qualche maniera) e non sull’oggettivo (persone, per qualche ragione, che trasmettono dati scorretti).
Le dimissioni di Spicer che mossa rappresentano in questo gioco? Presto per dirlo: l’intervista televisiva all’amica Fox News che rilascerà a breve sarà fonte di chiarezza (difficile) o, alternativamente, miniera di meme in memoriam. Per ora, segnalo questo “bel” ritratto su VICE Usa.
Aggiornamento: Nell’intervista Spicer non ha detto nulla di memorabile, a parte definire Trump “incredibilmente cortese” e dimostrare disappunto per come i giornalisti di Washington non siano tutti futuri premi Pulitzer ma personaggi ostaggio del clickbait alla ricerca di views e sensazionalismi a buon mercato. Ironicamente, si è anche rammaricato di coloro che non ricercano la verità, distogliendosi dai fatti. Alternativi o meno, non è dato saperlo.
Filippo Batisti
@disorderlinesss
Immagine di copertina: mediamatters.org
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