Lunedì 17 luglio, grazie ad Angela Caporale, che ha circa sette cervelli con cui controlla l’organizzazione di tutti gli eventi, l’organizzazione di tutti gli articoli, l’organizzazione di tutte le organizzazioni e l’organizzazione della cottura del frico, assisto al concerto degli Arcade Fire – tappa fondamentale del Milano Summer Festival.
Il concerto è all’Ippodromo del Galoppo di San Siro, un nome altisonante che ricorda vagamente il punto d’incontro fra un film porno dove maltrattano gli animali e uno sketch dei Monty Python in cui Terry Gilliam mima il suono degli zoccoli con delle noci di cocco. Quando finalmente riesco a superare i centocinquantaquattro controlli antibombe/antifurto/antiterrorismo-come-a-Manchester, mi rendo conto che, in realtà, l’atmosfera è più simile a quella di un grande picnic fra amici piuttosto che quella della prima data italiana di un gruppo di fama mondiale.
Ci sono giovani yuppie con la camicia e i pantaloni gessati, turiste tedesche (o forse polacche,o magari svedesi,ma comunque alte-magre-e-biondissime), coppie felici, coppie infelici e anche uno strano tizio con un maglione invernale. Dopo una rabbiosissima Everything Now, ad aprire il concerto è proprio il pezzo forte, Rebellion. Non è questa grande idea, perché è come iniziare il pranzo di Natale con la torta della nonna. Non sei pronto, sai che te lo godresti molto di più se chiudesse il concerto, però sai che è il pezzo forte quindi, in realtà, sei contento lo stesso.
Anni ottanta, anni ottanta ovunque: Blondie fa capolino fra Chemistry e Signs of Life, lo spettacolo di luci a forma di palla da discoteca (o di nave aliena, o magari si tratta di un orecchio) è un richiamo piacevole e nostalgico, ci sono un po’ di Dire Straits in No Cars Go. Persino il modo in cui Win Butler sfoggia beato il suo orribile e pacchianissimo cappello ondeggiando stando fermo è molto anni ottanta. Sono timidamente impilata dietro a un uomo altissimo, ho le gambe pietrificate e solo quando proprio non ce la faccio più a non farlo comincio a saltellare con circospezione.
Non sono mai stata capace di lasciarmi andare e fare tutte quelle cose che si fanno quando si apprezza la musica che si sta ascoltando, tipo ballare, cantare o anche solo battere le mani a tempo. Evidentemente è solo un problema mio, perché tutti gli altri partecipanti del concerto, che sono diversissimi per età, abbigliamento e senso del ritmo, sono una massa compatta e omogenea che balla e si lascia andare a cori entusiasti, che sono evidentemente la fortuna di questo gruppo.

Il cantante potrebbe serenamente andare a farsi un panino, fare una passeggiata per digerire, fermarsi a salutare e poi tornare, e ritroverebbe il suo pubblico impegnato in questo dolce uouououoooo, anello di connessione fra coro da stadio venuto male ed espressione di estasi collettiva. Here comes the night time mi fa scorrere milioni di piccole bollicine di felicità nel sangue, un po’ perché dal vivo ha una nota lirica che altrimenti non apprezzi così a fondo, un po’ perché nel frattempo il cielo esplode e piccole scie (naturalmente chimiche) di rosa si mescolano al nero della notte e all’azzurro che resta. In concomitanza con Afterlife il cielo si incupisce abbastanza da rasserenarmi e convincermi che la tipa che forse è tedesca, forse è svedese o forse è solo bionda non sta ridendo del mio ditone. Ne sarò completamente persuasa solo dopo Creature comfort e Neighborhood. Electric blue è straordinaria, ma è solo a metà di The Suburbs che il tizio altissimo sembra addirittura meno altissimo, o forse sono stata abbastanza astuta da spostarmi e non me ne sono accorta. Neon Bible è l’ultimo pezzo in scaletta, ed è quello che apprezzo di più, anche se di base lo trovo un po’ stucchevole, tipo una filastrocca su quanto è bello fare merenda misto all’incitazione alla pace nel mondo.
Il punto è che un pezzo che ti provoca sopracciglia aggrottate ed ettolitri di latte alle ginocchia quando ti rimbomba nelle cuffiette (che è una parola che ho imparato dai due giovani bergamaschi in fila davanti a me) finisce invece per coccolarti e lasciarti malinconico e un po’ vuoto, se è la conclusione di un concerto bellissimo. Insomma, l’ultima volta in cui mi sono sentita così è stato quando ho scoperto che i delfini hanno effettivamente realizzato la lotta di classe, ma c’è da dire che la mia amica Erica continuava a riempirmi la tazza di vino, c’erano anche delle scimmie e probabilmente il senso del documentario era un altro. Non lo sapremo mai.
Sofia Torre
Immagine di copertina: da Internazionale