Le due rivoluzioni dell’Arabia Saudita

Gli antefatti

Come abbiamo avuto modo di scrivere qualche articolo fa, l’Arabia Saudita di solito non compare quotidianamente sulle prime pagine dei giornali.
Eppure da qualche settimana gli eventi, nel regno dei Saud, sembrano aver subito un’accelerazione improvvisa.
Partiamo da quello che, a nostro avviso, è il fatto più importante.
Il 21 giugno è stato nominato principe ereditario il 31enne Mohammed bin Salman, prediletto del re Salman bin Abdulaziz, a scapito dell’investitura del precedente principe ereditario (nonché cugino di bin Salman), Mohammed bin Nayef.
Una scelta non scontata in un paese abituato a essere governato da una ristretta cerchia di anziani, discendenti diretti del fondatore del regno e in cui però il 60% della popolazione ha meno di 30 anni (un terzo dei quali risulta essere disoccupato).

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Mohamad Bin Salman| Fonte: The Independent

Poche settimane prima invece, il 5 giugno, i paesi del Golfo avevano scatenato un attacco diplomatico senza precedenti nei confronti del loro vicino di casa, il Qatar, accusato di sostegno a gruppi armati fondamentalisti quali Al Qaeda, ISIS e Fratelli musulmani.
Alla chiusura delle frontiere col piccolo regno peninsulare e alla cacciata di diplomatici e cittadini qatarini è seguita una lista di tredici richieste che Doha ha già rigettato, anche perché con una ratifica porrebbe fine alla propria politica estera e, forse, anche alla propria indipendenza quale stato sovrano.

Oltre a tutti questi avvenimenti prettamente “domestici” o comunque regionali, non si può certo tralasciare la visita di Donald Trump, che proprio con l’Arabia Saudita ha deciso di iniziare il suo primo tour all’estero da presidente degli Stati Uniti. Arrivato il 20 maggio nel paese, “The Donald” ha fatto subito capire che il vento era cambiato rispetto all’atteggiamento tenuto dal suo predecessore. Se infatti con Obama i rapporti tra i due stati si erano decisamente raffreddati, Trump ha rinsaldato gli antichi legami mettendo sul piatto un accordo da 110 miliardi di dollari per la vendita di armi e sistemi di difesa a Riyadh.
Oltre agli affari c’è stato anche tempo per i proclami, in particolare il presidente USA ha ribadito l’importanza di “opporsi all’estremismo islamico e ai gruppi del terrore islamico che ad esso si ispirano”.

Le conseguenze

La scelta del successore al trono è in realtà una scelta sul futuro che dovrà imboccare il paese. Il 57enne bin Nayef è stato ministro dell’Interno dal 2012 e fin dai primi anni Duemila si è reso protagonista della lotta alle cellule di al Qaeda in un periodo in cui il terrorismo sembrava minacciare seriamente la stabilità del regno. Ha inoltre represso le rivolte dei sauditi sciiti della Provincia orientale e dei correligionari del Bahrein, entrambe ispirate dai movimenti delle Primavere arabe.
Non meno prestigioso il curriculum vitae di Mohammed bin Salman: vice principe ereditario, ministro della Difesa, capo del Consiglio per gli Affari economici e sottosegretario alla presidenza del Consiglio. A ciò si unisce una personalità assai ambiziosa che ha spinto l’Arabia Saudita verso la guerra in Yemen e il piano denominato Vision 2030. Quest’ultimo mira a ridurre l’assistenzialismo statale tipico del modello economico saudita e ad incentivare l’iniziativa privata. Appaiono lontani oramai i tempi in cui era possibile vivere grazie alle rendite dei proventi del petrolio. Servizi pubblici gratuiti, sussidi e impieghi nell’apparato statale hanno cementato la fedeltà tra il popolo e la casa regnante ed evitato a quest’ultima i fastidi di un movimento sociale domestico che potesse impensierirla con richieste di maggiore libertà.
Se la fine di tali benefici non si accompagnerà ad un aumento dell’occupazione, Vision 2030 potrebbe portare a due scenari, ugualmente catastrofici per Salman: un “risveglio” dei cittadini sauditi da un lato, l’inasprirsi della lotta per la successione all’interno della (numerosissima) famiglia reale dall’altro.

La disputa col Qatar si innesta invece nel quadro del più vasto scontro per il potere regionale con l’Iran. L’emiro Al Thani da tempo ha proiettato il suo piccolo paese verso il resto del mondo cercando di sottrarsi dall’opprimente strapotere del “fratello maggiore” saudita. Di conseguenza la sua politica estera ha condotto l’emirato a sostenere progetti politici come quelli dei Fratelli musulmani ma anche movimenti meno pacifici quali Hamas nella Striscia di Gaza e Jaish al-Fatah in Siria. Partendo dal presupposto che su questo fronte Riyadh non può certo dirsi esente da critiche (l’Arabia Saudita è da tempo in cima alla lista degli Stati finanziatori del terrorismo), a nostro avviso sono ben altre le motivazioni di un simile attacco diplomatico.

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Emiro Al-Thani del Qatar | Fonte: Il Sole 24 Ore

Ad esempio la vicinanza tra Qatar e Iran, l’arci nemico dei Saud, che si esplica anche in termini economici (si veda il giacimento di gas naturale North Dome che i due paesi condividono). Una posizione inaccettabile per i sauditi, proprio ora che sono impegnatissimi nell’arginare la spinta iraniana in Siria e in Yemen
E non è un caso se sono state proprio le uniche due forze non arabe della regione (cioè la Turchia e lo stesso Iran) a schierarsi in difesa di Doha. Ankara, assecondando le fantasie neo-ottomane di Erdogan, non si è limitata a un sostegno a parole ma ha fornito all’emirato sotto embargo rifornimenti alimentari e ha addirittura inviato duecento soldati.

A tutto ciò si ricollega anche il tema dell’importanza del controllo del Golfo Persico e del Mar Rosso: come giustamente nota Cinzia Bianco, ricercatrice della Gulf State Analytics, l’Arabia Saudita è un “forziere prigioniero di sé stesso”. Le enormi risorse petrolifere si trovano strette fra l’Iran sciita a nord-ovest, mentre a sud-est si colloca l’instabile Yemen. Un abbraccio mortale da cui i sauditi cercano di divincolarsi ampliando il loro controllo sulla regione.
Con questa chiave di lettura si può interpretare anche la recente cessione da parte dell’Egitto all’Arabia Saudita dei due isolotti Tiran e Sanafir, privi di abitanti e risorse ma collocati all’ingresso del Golfo di Aqaba, in una posizione strategicamente cruciale).

E proprio sulla guerra in Yemen tanto la nomina di Mohammed bin Salman, quanto i recenti accordi commerciali con l’America di Trump potrebbero avere pesanti ripercussioni.
Il paese è allo stremo dopo oltre due anni di bombardamenti aerei, combattimenti e crisi alimentari e sanitarie.
Salman è stato il principale artefice di una politica estera molto più aggressiva rispetto al passato di cui l’intervento contro gli yemeniti è parte integrante. L’arrivo di armi fresche “made in USA” non potrà certo che peggiorare la situazione. E tutto ciò in un paese, l’Arabia Saudita, che l’anno scorso si è piazzato al quarto posto per spese militari e che è al secondo per importazioni di armi.

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Fonte: Guerre nel Mondo

Le conclusioni

Appare dunque inevitabile che i cambiamenti fin qui descritti portino a due rivoluzioni (che sono poi due facce della stessa medaglia), una sul fronte interno e una su quello esterno. Dentro il paese si vuole promuovere una svolta che sblocchi il potenziale dei giovani disoccupati e delle donne da sempre relegate ai margini della società, un potenziale oggi ingabbiato dalle pastoie di un rigido conservatorismo religioso e da decenni di totale assistenzialismo statale. Al di fuori di esso, ci si continua a muovere per assicurare all’Arabia Saudita il predominio sulla regione medio orientale.

Le possibili interpretazioni di queste mosse sono tante. Noi pensiamo che, nel più classico dei giochi gattopardeschi, stia ancora una volta trionfando il “tutto cambia per non cambiare nulla”. Per non soccombere e preservare la tenuta del regno – e del loro potere – i Saud stanno creando un nuovo patto sociale col loro popolo, un patto di cui Salman deve essere il volto e lo sponsor principale.
Oggi i Saud devono riuscire in un delicato esercizio di equilibrismo: mantenere a galla l’economia e salda la presa sul trono e al contempo non scontentare troppo i propri sudditi.
Ben diversa invece la lettura della politica estera saudita che, trascinata dall’iper-attivismo del nuovo principe ereditario, vede il paese giocare il ruolo di protagonista più che nel passato, quando si preferiva rimanere dietro le quinte.

Marco Colombo

Immagine in copertina: le conseguenza di un bombardamento saudita in Yemen | Fonte: Il Secolo XIX

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