Negli ultimi dieci anni, le migrazioni sono diventate un argomento da prima pagina. I giornali sono affollati delle immagini dei naufragi nel Mediterraneo, di filo spinato in Ungheria e di primi piani di ufficiali della guardia costiera. L’interesse su quello che succede ai migranti quando sbarcano è meno forte ma, lentamente, i media hanno cominciato ad occuparsi anche di questo. Dai banchi dei giornalai ci gridano addosso gli scandali delle cooperative che lucrano sui richiedenti asilo, al telegiornale regionale veniamo informati di qualche esempio positivo di integrazione: ragazze eritree che producono formaggio in Trentino, borghi ormai morenti ripopolati da giovani rifugiati africani. Ma nessuno ci parla granché di quello che succede quando non c’è integrazione, quando non c’è più accoglienza. Quasi nessuno ci parla dei migranti che vengono rimandati indietro.
Ai partecipanti della conferenza annuale di Escapes, “Ripensare le migrazioni forzate” svoltasi a Parma l’8 e il 9 giugno, ne ha parlato Jean Pierre Cassarino, ricercatore dell’Istituto di Ricerca sul Maghreb Contemporaneo di Tunisi (IRMC). Cassarino è un grande esperto di accordi volti alla riammissione, quei patti stretti dall’Unione Europea e dai singoli paesi membri per rimpatriare i migranti irregolari. Nel suo lavoro, ha mappato le centinaia di intese che i paesi europei hanno progressivamente stretto tra di loro e con i paesi africani, asiatici e dell’America Latina al fine di far rientrare in patria coloro che non avevano più diritto di risiedere sul loro territorio. Questo tipo di accordi ha preso piede all’inizio degli anni 50 e dal 1990 in poi si è vista un’incredibile proliferazione di patti volti alla riammissione. Oggi si tratta di un vero e proprio sistema che lega oltre 125 paesi.

Questo potente sistema mira ad una cosa sola: rimpatriare i migranti che si trovano in stato d’irregolarità. Il paese d’origine del migrante in stato d’irregolarità si impegna a riammettere costui all’interno del proprio territorio, così lo stato in cui il migrante si trova può rimpatriarlo. A venir rimpatriati non sono solo i richiedenti asilo la cui domanda è stata rifiutata. Molti sono stranieri in possesso di un visto per lavoro o per studio scaduto, o lavoratori stagionali che hanno diritto di restare soltanto per i mesi della raccolta della frutta o del boom dei turisti.
Ma cosa sono questi accordi volti alla riammissione? Si tratta di strumenti di vario tipo, alcuni sono veri e propri accordi bilaterali, ratificati dai parlamenti degli stati coinvolti. Altri sono accordi “non standard”: intese amministrative, accordi tra polizie, lettere d’intesa. Questi accordi “non standard” sono poco trasparenti, vengono approvati solo a livello ministeriale, senza pubblicità e senza un vero e proprio controllo democratico. In tal modo, davanti all’indifferenza del popolo dei paesi europei, si stringono patti che porteranno i migranti ad essere rispediti in paesi instabili, poverissimi, in cui non vengono rispettati i diritti umani. Un esempio tra tutti è quello del Memorandum tra l’Italia e la Libia, accusato ripetute volte di essere brutale e incostituzionale.
Incurante di tutto il resto, l’opinione pubblica europea è sempre più ostile ai migranti. Per questo, i partiti fanno a gara a prendere provvedimenti volti a combattere l’immigrazione irregolare. Spesso, gli accordi volti alla riammissione vengono pubblicizzati dai politici che li stringono come un modo per “fermare l’invasione”. Ma lo scopo di tali accordi non è davvero quello di ostacolare la migrazione. Infatti, non aumentano i controlli alla frontiera, né affrontano le cause dei movimenti migratori nei paesi d’origine. Si limitano a rendere più facile l’espulsione di migranti di alcune nazionalità, una volta che siano già sul territorio europeo. In altre parole, curano l’effetto senza affrontarne la causa.

Qual è quindi il vero scopo del sistema della riammissione? Cassarino dà una sua spiegazione, illustrando due funzioni nascoste di questi accordi. La prima è quella di rafforzare la credibilità dell’impegno volto al contrasto dell’immigrazione irregolare da parte dello stato di destinazione che stringe l’accordo. Anche quando il patto non viene mai veramente messo in pratica, come è accaduto all’accordo tra Italia e Libia, l’effetto sugli elettori è comunque forte e mostra un governo risoluto. In questo modo, il partito politico che ha promosso tale accordo può raccogliere gli applausi degli elettori senza dover mettere in pratica altre politiche di lungo periodo, più eque e più efficaci, ma troppo costose ed ardue da comunicare all’elettorato.
La seconda funzione di tali accordi volta è soprattutto rivolta ai lavoratori stranieri, sia coloro che hanno un visto per lavoro sia i lavoratori “a tempo”, come per esempio gli stagionali che sono ammessi in Italia per fornire manodopera nei momenti di maggior attività in agricoltura o nel turismo. Verso questi lavoratori stranieri, il sistema della riammissione funziona un po’ come un aggravamento della condizione di precarietà. Per chi ha un visto per lavoro rinnovabile, perdere il posto diventa ancora più grave, perché potrebbe portare ad una perdita del diritto di risiedere sul territorio. Bisogna trovare un altro lavoro al più presto, non importa in quali condizioni e con quale paga. Per gli stagionali, invece, il sistema di riammissione rende implacabile la temporaneità della propria condizione. Il lavoro dura tre mesi e con il lavoro anche il diritto a restare in Italia. Non ci sono possibilità di rinnovo del contratto, né di radicamento sul territorio italiano.
Ma siamo sicuri che quest’asservimento della forza lavoro a contratti temporanei e a una vita di precarietà sia appannaggio solo dei lavoratori stranieri? Jean-Pierre Cassarino ci invita a guardare più da vicino queste leggi. Le conseguenze degli accordi di riammissione sono tanto più pesanti sulla manodopera straniera quando vengono messe in connessione con la normativa vigente sul lavoro, che punta a precarizzare sempre di più l’impiego e ad ampliare la discrezionalità dei datori di lavoro. La politica suggerisce che diminuire le garanzie per i lavoratori stranieri tuteli i lavoratori autoctoni, ma è tutto l’inverso. La provvisorietà dei lavoratori stranieri, l’impossibilità di accedere ad alcuni servizi, la dipendenza dalle condizioni decise dai datori di lavoro non fa che peggiorare le condizioni di lavoro per tutti i lavoratori, anche quelli autoctoni. I salari si abbassano, la tutela sindacale diminuisce, aumenta l’esercito dei disperati pronti ad accettare qualunque prezzo per poter lavorare. Ancora peggio, l’idea stessa della temporaneità e della precarietà del lavoro, e quindi della vita, diventa normale, quotidiana, perfettamente accettabile. Nel rendere temporanee e insicure le vite dei lavoratori migranti, essi vengono usati come un laboratorio per rendere accettabile l’insicurezza di tutti i lavoratori, anche di quelli che hanno la nazionalità.
Le politiche di riammissione, quindi, come molte altre politiche dirette alla gestione delle migrazioni, finiscono per essere facili vie per cercare il consenso degli elettori e strumenti per rafforzare gli interessi di chi il potere già lo detiene. Per difenderci da queste politiche, per vedere oltre la cortina fumogena qual è la loro vera natura, potremmo forse cercare di fare nostro il motto della conferenza di Escapes: ripensare le migrazioni. E nel ripensare le migrazioni, nel modificare il nostro sguardo su di esse, potremmo forse ripensare a molte altre cose che diamo per scontate, come il fatto che dare dei diritti ai migranti tolga diritti agli europei, e che per stare bene “noi” dobbiamo per forza ricacciare indietro “loro”. Forse non è affatto così, forse per star meglio noi, dobbiamo stare meglio tutti.
Angela Tognolini
[Immagine di copertina copywright by: AP Photo/ Boris Roessler]
Per approfondimenti sul lavoro di Jean-Pierre Cassarino:
http://irmcmaghreb.academia.edu/JeanPierreCassarino
http://www.iai.it/it/persone/jean-pierre-cassarino
Per approfondimenti su “Escapes. Laboratorio di studi critici sulle migrazioni forzate”:
http://users2.unimi.it/escapes/
Un pensiero su “Come espellere i migranti: politiche di caccia al consenso e precarietà”