Biografilm Festival: il pagellone di Giacomo Gelati

Ho il vizio di generare quadrati semiotici per ogni testo che mi attornia, dai romanzi ai film, dagli spot ai quadri di un museo. Un’astrusa eredità dei miei studi di semiotica all’università, uno strumento tanto affascinante quanto sostanzialmente inutile per vivere la vita. Ed è per questo che la lista che segue è un catalogo che parla per elementi contrari fra loro, ovvero quegli elementi che compongono lo scheletro narrativo della mia esperienza al Biografilm Festival-International Celebration of Lives, 13esima edizione della kermesse cinematografica dedicata ai documentari biografici. Un catalogo di pensieri su quanto visto nelle sale della Cineteca di Bologna dal 9 al 20 giugno. Ma non lo si assuma come guida, o come brochure (ci ha già pensato gente competente e del settore), piuttosto come punto di vista, come rapido sguardo di un appassionato di cinema.

  1. La danseuse di Stéphanie Di Giusto (2016).

La storia della pioniera della danza moderna Loïe Fuller, interpretata dalla cantante francese Soko, è la storia di un viaggio in controtendenza dall’America all’Europa in cerca di fortuna: siamo infatti a cavallo fra XIX e XX secolo e all’epoca, di norma, dall’Europa si fuggiva. Un itinerario complesso fra le onnipresenti belve del mondo dello spettacolo, il desiderio, l’ambizione e le pulsioni sessuali. Per com’è stato monograficamente progettato, il film è troppo sbrigativo nei passaggi che riguardano l’ascesa teatrale della Fuller. Tuttavia l’espediente tecnico luce/buio che governa tutta la pellicola trasmette del tutto il senso di luminosità e oscurità che regge la vita, artistica e affettiva, della protagonista. Coreografie straordinarie. Voto 7.

  1. Poisoning paradise di Keely Shaye Brosnan (2016).

Le Hawaii sono il paradiso terrestre, su questo sono tutti d’accordo. Eppure la prepotenza di alcune multinazionali chimiche, che si fanno in quattro per la sperimentazione di cereali OGM e l’utilizzo massiccio di pesticidi a ridosso dei villaggi dell’arcipelago, sta svilendo il loro status di locus amoenus. Purtroppo però, senza nulla togliere alla problematica in sé, il film della signora Brosnan (il bel Pierce era presente alla première della moglie) si consuma tutto nelle due parole del titolo e il gioco purezza/corruzione non viene espresso a dovere. Anzi, a dirla tutta sembra che lo zapping ci abbia portati su una puntata soporifera di National Geographic. E, porco giuda, le pile del telecomando sono scariche. Voto 5.

  1. Dopo la guerra di Annarita Zambrano (2017).

La cosiddetta dottrina Mitterand ha concesso il diritto di asilo a un gran numero di brigatisti italiani, rifugiatisi in Francia a partire dal 1982 lasciandosi alle spalle dignità e affetti. Il protagonista del film è infatti un ex brigatista interpretato da Giuseppe Battiston, solenne, maestoso, un antieroe rigoroso che vive con la figlia francese e, all’estremità opposta della sua esistenza, ha reso la sua famiglia italiana una vittima collaterale del terrorismo. Il gioco certezza/dubbio dirige l’intera narrazione di un film di marmo (tanto nei dialoghi quanto nella regìa) e altrettanto disumano. Voto 7.

  1. The eagle huntress di Otto Bell (2016).

Il folklore della Mongolia vuole che l’addestramento delle aquile sia una tradizione esclusivamente maschile: la donna è relegata in cucina a preparare la cena per il viril cacciatore. Ma la tredicenne Aisholpan, incoraggiata dal padre e dal nonno, decide di mutilare questa imposizione popolare e, addirittura, va a vincere il primo premio del prestigioso Festival dell’Aquila Reale, con buona pace dei veterani. Una vicenda in tutto e per tutto disneyana (il gioco libertà/asservimento detta il ritmo), qualcosa che oscilla fra Mulan, Dumbo e una qualsiasi altra storia di generico affrancamento. Immagini spettacolari degli altopiani mongoli si alternano a ralenti spettacolari di aquile che volano sugli altopiani mongoli. La Mongolia è bella, ma non ci vivrei. Voto 6.

eagle huntress
Fonte: slashfilm.com
  1. All Governements lie: truth, deception and the spirit of I. F. Stone di Fred Peabody (2016).

Isidor Feinstein Stone ha radicalmente rivoluzionato il giornalismo investigativo americano e mondiale, non a caso è stato istituito il prestigioso premio giornalistico “I.F. Stone Medal for Journalistic Independence”. Nel film in questione un gruppo di giornalisti e registi ne elogia l’operato, riportando in auge il suo celebre motto “Tutti i governi mentono”. E a tutti gli effetti lo scenario non è meno preoccupante e delicato di una qualsiasi inchiesta di Micheal Moore (intervistato e più volte citato nel film). È per questa ragione che l’effetto déjà-vu non lascia risplendere una pellicola comunque intrigante, dove il gioco verità/falsità sull’operato da Clinton a Trump rischierebbe di infervorare i complottisti, se non aleggiasse lo spirito di I.F. Stone. A proposito: come diavolo ha fatto Obama a vincere il Nobel per la pace? Voto 6-.

  1. Fortezza Bastiani di Michele Mellara e Alessandro Rossi (2001).

“In questo film i protagonisti si fanno molte canne, pertanto abbiamo pensato di farvi un regalo”. È così che fa il suo ritorno al cinema il cult di Michele Mellara e Alessandro Rossi, che prima della proiezione scagliano sugli spettatori decine di pacchetti di cartine e, dopo venti minuti dall’inizio del film, riaccendono le luci in sala scusandosi perché “Il proiettore non era posizionato bene e le immagini risultavano tagliate”: la seconda proiezione è stata uguale. Irriverente e a tratti surreale, il film racconta la storia di un gruppo di amici che vive nello stesso appartamento di Bologna, la Fortezza Bastiani, omaggio a Dino Buzzati. Cretinamente divertente, inquieto e nostalgico, critico e severo, uno spaccato sulla (straordinaria) Bologna di inizio terzo millennio. Con la penosa ombra della vita adulta ad incupire la vita da studenti. Voto 7.

  1. Amazona di Clare Weiskopf (2016).

Niente mi fa più incazzare dei genitori che fuggono a gambe levate dalle proprie responsabilità affettive, come se riprodursi fosse una deiezione. O una fotocopia di sé da appallottolare e buttare nel cestino della carta. E finisce che chiedergli spiegazioni in merito sia più doloroso e desolante che accettare di essere virtualmente orfani. Questo è l’assunto alla base del film che vede protagonista la madre della regista, scappata nella giungla colombiana abbandonando la figlia. Clare la raggiunge nella foresta amazzonica per ricomporre i pezzi di questo distacco, per comprendere le ragioni di una madre individualista e inquietantemente hippy. Il gioco stabilità/instabilità genera nervosismo. E ne sono uscito più incazzato di prima. Voto 6/7.

  1. Il Principe di Ostia Bronx di Raffaele Passerini (2017).

Il Principe e la Contessa sono una felliniana coppia omosessuale che vive in un assurdo appartamento di Ostia, la loro tana del Bianconiglio, caotica, magica, kitsch, il meraviglioso nascondiglio per chi dalla collettività è stato tagliato fuori. “Per tutti i calci in culo che mi ha dato la società, mi sono messo su un piedistallo e ho deciso che sono il Principe”, racconta il protagonista del film, un tizio colorato e stravagante che ha creato il suo regno sulla spiaggia di Ostia, dove ha iniziato a farsi conoscere con le sue catilinarie contro il governo ladro e il mondo intero. Un matto, agli occhi dei più. Giocato tra realtà e finzione, la domanda è affettuosamente questa: dov’è che finisce l’attore e inizia l’uomo? Voto 7+.

Fonte: Youtube
  1. It’s not yet dark di Frankie Fenton (2016).

Simon Fitzmaurice è un regista che sta combattendo con la SLA, una malattia impietosa che in poco tempo l’ha portato alla paralisi e a una comunicazione computerizzata attraverso uno strumento che legge il movimento delle sue pupille. Ma questo non lo fermerà dal dirigere il suo nuovo film, con tutte le difficoltà del caso. Giocato sulla dicotomia movimento/staticità, la pellicola -personalmente- è un sovrabbondante inno alla vita che dal mio punto di vista pecca di estrema amplificazione dell’idea che le si debba restare attaccati a tutti i costi. Senza voler sminuire una storia indubbiamente incredibile, l’impressione è che il complesso tema dell’eutanasia venga demonizzato. Voto 6,5.

  1. Lovemilla di Teemu Nikki (2015).

Il regista presente in sala avverte i più accaniti cinefili che nel suo film sono presenti 15 citazioni di film anni Ottanta. E così il divertente pastrocchio diretto da Teemu Nikki diventa l’occasione per assistere a una bizzarra carrellata di fantascienza, b-movie, horror e cartoons totalmente spassosa. La trama? Milla e Aimo devono mettere da parte i soldi per andare a vivere insieme, poi accade di tutto e di più. I genitori zombie alcolisti sono l’antipasto di un’ora e mezzo di delirio, giocato fra -lo giuro- orgasmi floreali e insensibilità robotica. Voto 7,5.

  1. I’m not alone anyway di Veronica Santi (2017).

Di Francesca Alinovi si conosce purtroppo il triste finale, una vicenda di cronaca nera che ha riempito i giornali di inizio anni Ottanta. Eppure il riservato carisma della protagonista di questo film fa luce su una donna più viva che mai nei cuori di chi l’ha conosciuta. Critica d’arte e organizzatrice di celebri mostre, la Alinovi ha esplorato il sottobosco artistico di mezzo mondo, diventando amica di Andy Warhol e Holly Solomon, raccontando gli esclusi e la periferia, portando in Italia un mondo fino allora ignorato. Il gioco curiosità/indifferenza governa lo charme della protagonista assente di questo film. Voto 6,5.

  1. Fame di Giacomo Abbruzzese e Angelo Milano (2017).

A mio parere tra le cose più bella viste durante il festival, al di là del conflitto di interessi dovuto al mio legame sentimentale con una donna grottagliese. Perché per anni Grottaglie è stato il centro del mondo della street art, grazie allo straordinario festival ideato da Angelo Milano, già bassista della band screamo La Quiete. Fame Festival ha portato nella desolata provincia tarantina il meglio degli artisti internazionali, Blu, Ericailcane, Conor Harrington, Escif, Vhils e compagnia cantante, pitturando, addobbando, sporcando e imbrattando il centro storico di un paesino di provincia con tutti i pregiudizi e le idiosincrasie di chi vede l’arte di strada come vandalismo allo stato brado. Alcuni di quei dipinti meravigliosi esistono ancora, ma Fame Festival no. Ché l’appetito di arte è stato sfamato. In culo a chi aveva iniziato lucrarci sopra. Voto 8.

  1. To stay alive: a method di Arno Hagers, Erik Lieshout e Reinier van Brummelen (2016).

L’incontro fra Iggy Pop e Michel Houellebecq è l’incontro fra due uomini che, in momenti e circostanze differenti, hanno incontrato la poesia e l’hanno strumentalizzata, fatta boa per non andare a fondo: loro che si riconoscono nella figura del loser. Il film è un’indagine sublime sul peso della parola, sulla sua smisurata potenza, quattro capitoli di indagine sul rapporto fra malattia mentale, ossessione, incontro ravvicinato con la morte, desiderio. È un film tanto forte quanto sfuggente, poetico e astruso, un inno al romanticismo, con la sua analisi della propria interiorità e dei propri lati oscuri. E la voce narrante, profonda e lacerata, di Iggy Pop. Voto 7,5.

  1. Into the inferno di Werner Herzog (2016).

Quando c’è di mezzo il signor Herzog sono sempre molto felice, la potenza delle sue immagini e dei suoi contenuti non ha eguali. L’argomento che governa questa straordinaria pellicola (concessa al Biografilm da Netflix) è che il fuoco se ne frega. Così il regista tedesco e il vulcanologo Clive Oppenheimer attraversano Indonesia, Islanda, Corea del Nord ed Etiopia alla scoperta dei vulcani più importanti della Terra e delle origini dell’umanità, luoghi rivestiti di una sacralità eccezionale, cattedrali naturali idolatrate dall’uomo per timore dell’Onnipotente. E dove le elucubrazioni sul fuoco e l’autorevolezza della natura ridimensionano tutti gli esseri umani. Il gioco potenza/impotenza è il filo rosso di una narrazione senza sbavature. Voto 7,5.

  1. Cherchez la femme! di Sou Abadi (2017).

Immagina una versione di “A qualcuno piace caldo” e ““Mrs. Doubtfire” in chiave religiosa, una commedia magistralmente congegnata per far riflettere sul ruolo sociale della donna e sulla femminilità. Ma anche, con ironica sapienza, per ridicolizzare in modo diretto le esacerbazioni dottrinali della storia contemporanea, dall’islam al comunismo. Il fratello della protagonista torna da un viaggio in Yemen profondamente trasformato e, a suo dire, lo stile di vita moderno della sorella è un’offesa a Dio e alla comunità musulmana. La protagonista viene pertanto confinata in casa, ma il suo fidanzato pur di vederla indossa il niqab e si spaccia per donna. Il gioco visibile/invisibile funziona in modo spassoso. Voto 7.

  1. Funeralopolis, a suburban portrait di Alessandro Radaelli (2017).

L’uso del bianco e nero è l’onesta raffigurazione della periferia bresciana nella quale i protagonisti di questa pellicola sopravvivono, restando in vita nella passività di chi ha si è lasciato andare. L’eroina allevia la noia e dà un senso comunitario a i due protagonisti del film, atrocemente vero, atrocemente grezzo e senza una logica narrativa, che rispecchia l’insensatezza delle vite periferiche di Vash e Pez. Droga a profusione, nei cessi del treno, in casa, al cimitero. E in macchina, dove la scena finale del film è un climax di angoscia raggelante e un capolavoro di regìa. Forse il film più difficile da dirigere, a stretto contatto con la morte. Voto 7/8.

fonte: filmtv.it
  1. All these sleepless nights di Michal Marczak (2016).

Alle feste ci si aspetta sempre che accada qualcosa, ma poi finisce spesso che l’aspettativa calpesti la realtà. Un concetto che non sembra essere chiaro ai protagonisti del film, girovaghi nelle notti di Varsavia, perennemente all’inseguimento della soddisfazione e dell’appagamento. Un inseguimento che proietta lo spettatore nella paradossale solitudine dei due giovani polacchi, sempre in compagnia di belle ragazze, in mezzo a feste, balli, orge all’alba. Un’emarginazione sottile, impalpabile, una solitudine sibillina che mi ha commosso. A mio parere il film al contempo più immediato e difficile del festival. Voto 8,5.

  1. Una mujer fantástica di Sebastián Lelio (2017).

Marina ama Orlando. Lui le organizza una bella festa di compleanno, fanno l’amore, ma nel cuore della notte si sente male e muore all’ospedale poco dopo. Un avvenimento che apre una crepa profondissima nella vita di Marina, transgender, e nella famiglia di Orlando, nella quale l’ex moglie e il figlio armano i fucili contro di lei ritenendola responsabile della morte. Una sceneggiatura straordinaria che fa a lungo riflettere sul giudizio sociale e l’identità sessuale. Voto 8.

  1. Alain Daniélou: il labirinto di una vita di Riccardo Biadene (2017).

L’orientalista francese Alain Daniélou amava la musica e la vita e diceva: “Il divino è in tutte le cose che ci circondano”. Prima di morire ha detto che si poteva riassumere la sua vita come un labirinto, un luogo impenetrabile che costringe ognuno di noi a camminare per comprenderne la forma. E quello che ha fatto è stato camminare per tutta la vita, fra l’Europa e l’India, alla ricerca del senso delle cose. Divenuto shivaita durante il suo soggiorno a Varanasi, è colui che ha contribuito alla realizzazione del primo catalogo di musica classica indiana. Citando il Marty McFly: “Penso che ancora non siate pronti per questa musica, ma ai vostri figli piacerà”. Voto 5,5.

Giacomo Gelati

Leggi l’intervista a Giacomo per la rubrica Talk about the passion

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