La lezione della domenica, ovvero come le amministrative descrivono l’Italia

Come ogni lunedì mattina, anche oggi i branchi di tifosi che affollano lo stivale italico accorrono in luoghi pubblici a dibattere amabilmente dei risultati riportati dalle proprie squadre. Un po’ per spirito di discussione, un po’ per spirito di protesta, i discorsi si rimpallano sempre tra impervie analisi del comportamento tecnico-tattico della propria fazione e le sfortune che l’amara sorte ha riservato loro.

La differenza sostanziale tra oggi ed un qualsiasi inizio settimana post-derby della Madonnina è che oggi le discussioni si incentrano su una prova agonistica nazionale: le elezioni amministrative 2017.

Come ogni italiano, che secondo Winston Churchill “perde le partite di calcio come se fossero guerre, e le guerre come se fossero partite di calcio”, riportiamo alcune analisi – tutt’altro che complete né tantomeno perfette – sul voto di ieri, senza voler scatenare il dibattito sulla presenza o meno degli estremi per il calcio di rigore che ha condizionato la gara. Come per ogni dibattito post-partita, la discussione si incentra su domande sportivo-esistenziali.

Perché sono tutti grillini tranne i sindaci?

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Risultati del primo turno nei quattro principali capoluoghi. Fonte Repubblica.it

Il principale partito italiano – perlomeno secondo i sondaggisti – è riuscito nella non invidiabile impresa di arrivare al ballottaggio soltanto nell’assemblea di condominio di Via del Tritone, 142 a Roma. Al di là della facile ironia – che, non si indignino gli amici grillini, sarà riservata a tutti – il MoVimento capitanato dall’ex comico Beppe Grillo è atteso dalla più difficile delle sfide: una severa quanto costruttiva autocritica.

Dato dai sondaggi più avversi poco al di sotto del 30% su scala nazionale, abbondantemente primo partito politico, già espressione del sindaco di Roma e Torino, nonché del vicepresidente della Camera, il Movimento 5 stelle non riesce ad conquistare l’accesso al ballottaggio in nessun comune chiave – zero su 25 nei capoluoghi – e, sui 140 totali, ci arriva solo in 8, tra i quali i più rilevanti sono Carrara, Guidonia e Acqui Terme.

Dopo il successo delle amministrative 2016 che ha portato due grandi città come Roma e Torino tra le fila dei Cinque Stelle, molti commentatori politici inneggiavano ad una nuova Prima Repubblica dove il PD/Dc era condannato a vincere a livello nazionale, alleandosi con i vari partitini, mentre il M5S/PCI si sarebbe pian piano aggiudicato i grandi centri urbani, alternando così il potere politico tra nazionale e comunale. Ovviamente la lettura non ha dato seguito ai fatti. Anzi, se ci attenessimo ai risultati delle amministrative, i Cinque Stelle sarebbero a percentuali pre-Renzi, raramente sopra il 10%. Prima di addentrarci in alcuni casi speciali che meritano menzione, vorrei sottolineare come la lettura del 2016 fosse errata già da subito. Infatti, tralasciando le innegabili grandi vittorie di Roma e Torino, negli altri capoluoghi al voto (Milano, Napoli, Bologna, Cagliari e Trieste) nessun contendente pentastellato è arrivato al ballottaggio che vide un canonico scontro Cdx/Csx – se includiamo De Magistris nel centrosinistra. A Cagliari, ad esempio, il Movimento non sfondò il 10%. E questi risultati sono confermati anche nel 2017.

Facendo poi riferimento ad alcuni casi particolari, osserviamo che questa tornata elettorale offre importanti spunti su cui riflettere ai vertici dei Cinque Stelle. Sono i casi di Parma e Genova, su tutti, a dare i segnali più chiari. A Parma, il primo sindaco pentastellato di capoluogo ha sì ben svolto il proprio lavoro, tanto da vedersi nuovamente in testa al primo turno col 38% dei voti circa, ma non ha potuto correre per il MoVimento. Pizzarotti è, infatti, il simbolo delle lotte intestine che hanno scombussolato i Cinque Stelle in questi 4 anni. Il sindaco parmense, da subito inviso al gruppo di potere grillino, è stato espulso dal partito dopo neanche 3 anni di governo per ragioni che non sono state ritenute così gravi nemmeno 12 mesi dopo, quando sotto accusa c’era la sindaca di Roma, Virginia Raggi. In entrambi i casi, infatti, gli esponenti pentastellati avevano ricevuto un avviso di Garanzia.

Secondo alcuni analisti è segnale della trasformazione del MoVimento che, in pochi anni, si è trasformato da compagine d’opposizione a partito di governo, più flessibile sulle questioni giudiziarie che coinvolgono in prima persona gli eletti. Tuttavia questa lettura non ha convinto gli elettori di Parma che hanno abbandonato quasi completamente il MoVimento, fermo ad un irrisorio 3.18% dei voti. Una débâcle in un capoluogo che avrebbe dovuto essere  simbolo del successo di un’amministrazione a cinque stelle, con una probabile riconferma del suo primo volto noto, e che invece resterà il simbolo della pretestuosa faida autolesiva che innegabilmente accompagna i Cinque Stelle da quando sono entrati in Parlamento. Una tendenza che ritroviamo su più piani: a livello nazionale si manifesta nelle lotte Di Maio – Di Battista – Fico, con esito l’autosiluramento dell’accordo sulla legge elettorale, a livello locale si manifesta con la perdita di migliaia di voti considerati sicuri.

Altro nodo dolente è la città natale del pater Grillo: Genova. La valenza simbolica non è legata ai natali del leader pentastellato, ma perché è proprio nel capoluogo ligure che sono venuti al pettine i nodi concettuali dell'”Uno vale uno”, originario motto grillino. Monica Cassimatis vince sul web le “comunarie”, e Grillo la solleva dall’incarico, togliendole il simbolo, per un non meglio precisato pretesto, affermando la famosa sentenza “fidatevi di me”: ciò è valso un misero 18.07%, con un distacco dal ballottaggio di 15 punti percentuali. Una vera e propria Caporetto grillina.

Qui una serie di questioni si pongono per il direttorio, ma anche per la base, del Movimento 5 Stelle. Perché effettivamente i pentastellati non riescono in quel salto di qualità, ovvero nel passare da movimento di opposizione a movimento di governo? Ci sono varie questioni, dalle lotte di potere interne, alla mancanza di un substrato ideologico comune che le incita, alle non brillanti prove di governo in due città chiave come Torino e Roma,  alla mancanza di una costruzione seria di una classe dirigente che, volenti o nolenti, non si costruisce in soli 5 anni. Anche la distanza tra base elettorale, base politicache al parlamento europeo ha votato per bel il 74.2% con il GUE, il gruppo che racchiude le formazioni a Sinistra del PSEe  gruppo dirigente, che più volte è intervenuto nelle questioni amministrative, espellendo Pizzarotti, proteggendo Raggi e rimuovendo Cassimatis.

La questione può essere anche più profonda, più concettuale se ci soffermiamo a riflettere sul potere taumaturgico della base sul web, colonna portante di un movimento politico che ha sede ufficiale su un blog, beppegrillo.itche non è di proprietà di Beppe Grillo. L’idea è fallata alla radice, nel momento in cui, per scegliere il candidato sindaco attraverso il “più grande progetto di democrazia diretta della storia”, partecipano in pochissimi, tanto che in una città come Monza che conta 122.723 abitanti, bastano 20 voti per diventare candidato ufficiale 5 stelle.

Ma se il Movimento piange, il Partito Democratico non ride.

Perché per cantare vittoria devono perdere gli altri?

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Risultati cumulativi del primo turno confrontati con le precedenti amministrative. Fonte Repubblica.it

Arrivare alle elezioni con praticamente tutti i sindaci uscenti dalla propria parte (14 su 25 tra i capoluoghi) mette una certa pressione addosso. Se poi ti giochi alcune città chiave, storicamente della tua parte come Genova e La Spezia la pressione aumenta.

Arrivare al ballottaggio da secondi praticamente ovunque, non è minimamente il risultato che ti aspettavi. Riuscire, inoltre, a perdere nella rossissima La Spezia, nella meno importante, ma più iconica Rignano sull’Arno, città di Renzi e non arrivare al ballottaggio a Verona, perdendo contro una lista civica della moglie di un ex-leghista lasciando quindi il derby al secondo turno, odora di disfatta. In pratica, l’unica nota positiva arriva al PD da Palermo, dove il candidato della destra, Ferrandelli, era un ex candidato Dem, vincitore delle primarie del Csx del 2012, ma perdente alle comunali contro l’outsider Orlando. Un girotondo da far venir mal di testa.

Nonostante ciò, gli avveduti dirigenti Democratici esultano per la débâcle dei Cinque Stelle, ignorando la altrettanto pesante sconfitta del proprio partito su scala nazionale. È vero che mancano ancora i secondi turni che possono ribaltare alcune situazioni in bilico, ma un distacco di 5 punti in una città storicamente di sinistra come Genova, dopo aver ceduto anno scorso l’intera Liguria al centrodestra, non può certo essere considerata una vittoria, anzi.

Il partito di governo ha sofferto il suo essere partito di governo. Ma ha anche patito le conseguenze della scissione, degli screzi interni, della continua autodistruzione delle classi dirigenti locali, soffocate da lotte fratricide, alle volte ideologiche alle volte puramente politiche. A Genova il centrosinistra unito non è riuscito a candidare una figura politicamente rilevante, capace di unire freschezza e idee politiche chiare e di sinistra, ed è uscito sconfitto – perlomeno al primo turno. A Verona, la faida tra leghisti è risultata più interessante della proposta politica di una renziana di ferro come Oretta Salemi. A Padova, il PD è staccato di oltre 10 punti percentuali dall’ex sindaco sfiduciato – che ha conseguentemente portato al commissariamento della città – Massimo Bitonci. A Parma riescono ad arrivare sotto ad un sindaco espulso dal suo partito, che ha dovuto costruire da zero una lista civica in meno di un anno. A Taranto – città dell’ILVA – il PD non arriva che al 12%, appena due punti sopra la Lega d’azione Meridionale (!). Sono tutte disfatte.

Ma invece di darsi una scossa politica, il PD si crogiola nella disfatta dei Cinque Stelle. Francamente appare un comportamento alquanto infantile.

Ma perché siamo vicini a destra solo quando non conta?

Sembrerebbe che il ruolo di vincitore di questa tornata elettorale tocchi al Centrodestra unito, forse più per demeriti altrui che per meriti propri. Le città storiche del Cdx non lo abbandonano, e loro ricambiano presentandosi compatti – al di là di Verona, unico caso rilevante. La proposta amministrativa è però la medesima del periodo berlusconiano, anche se la Lega è sempre di più il partito principe della coalizione. Batte Forza Italia infatti a Genova, Verona, Padova, Monza, Piacenza, Alessandria. Sconfitta solo al sud e a La Spezia. In ogni caso, mai sopra il 15%. In pratica, il Cdx regge grazie alle Liste Civiche affiliate, e al fatto di unire Lega – FI – Fratelli d’Italia, coalizione mai sotto al 20% in tutta Italia.

Se a livello nazionale sembrano preponderanti le distanze tra i partiti della colazioni, con FI timidamente europeista, liberale, garantista, moderata e borghese contro Lega / FDI sempre più sovranisti, anti-europeisti, giustizialisti e operai, che infatti leva i voti alla sinistra, anche più estrema, a livello locale la compattezza è quasi assoluta, con le differenze che in ambito puramente amministrativo quasi non si percepiscono, rendendo il centrodestra effettivamente l’unica coalizione presente nel Paese.

Ma il patto sarà stabile anche per un eventuale voto politico? Questo sembra ogni giorno meno plausibile, anche se questi risultati – se confermati al secondo turno – potranno cambiare le carte in tavola, spingendo i due leader, poco avvezzi alla riduzione del proprio potere politico, ad un accordo di governo. D’altronde, Berlusconi riuscì nel creare l’alleanza impossibile tra i secessionisti bossiani ed i nazionalisti finiani, in quella che oramai è un’era fa.

Ma perché vogliamo votare sempre e quando si vota vanno in due?

Una conclusione, infine, su quello che forse è il dato più importante emerso da queste amministrative 2017: sarà pur vero che gli italiani amano mettere la bocca su tutto, scatenarsi in diatribe fratricide su ogni argomento, e sono oltremodo vogliosi di esprimere fattivamente la propria opinione.

Ma è andato a votare il 60.07% degli elettori, in lieve calo rispetto alle amministrative 2016 (62%) e a quelle del 2015 (64%). Un trend che si rinnova eccezion fatta per il referendum costituzionale del 4 dicembre scorso, non certo una grande dimostrazione di partecipazione politica.

Alessandro Bombini

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