“Humanz”, Gorillaz: una recenzione zenza preteze

“Humanz”, Gorillaz: una recenzione zenza preteze

(ventisei nella versione deluxe, in streaming su Spotify), per un totale di complessive, da Vince Staples a Danny Brown, da Jehnny Beth delle Savages a Benjamin Clementine, dagli onnipresenti De La Soul a probabilmente senza precedenti per il lancio un album, che ha contato tra le altre cose cinque video (di cui 4 rilasciati contemporaneamente), e in genere una comunicazione che ha sfruttato senza pietà ogni canale possibile e immaginabile. Non c’è da stupirsi se, Come si fa a recensire un disco del genere? Da dove si parte per scrivere di , forse la più famosa tra le creature partorite dal cornucopico talento di Damon Albarn? Che cosa dire di un album su cui, a poche ore dall’uscita, è già stato detto tutto? , almeno nel senso classico del termine. La quantità e l’eterogeneità delle collaborazioni lo rende quasi una playlist, seguendo quella tendenza già inaugurata da Drake col suo ultimo disco . A questo va aggiunto il noto eclettismo della virtual-band timonata da Damon Albarn, che mescola da sempre – e in ancora più del solito – stili e generi diversi: dub e dubstep, hip-hop, soul, rock, venature di malinconia blues, dance ed elettronica. I dischi dei Gorillaz sono come la pasta al forno della nonna: gli ingredienti e le quantità cambiano sempre, ma la mano che li mescola è inconfondibile. Attraverso tutta la loro produzione musicale, infatti, i quattro esseri creati dal , un’impronta immediatamente riconoscibile che rende unico tutto ciò che toccano. Sarà la molteplicità del loro operato, sarà l’ambientazione scura e a tratti mostruosa, ma sempre ironica, sarà la ballabilità orecchiabile di pezzi spesso tutt’altro che pop, o forse la sperimentazione trasversale che li porta a navigare tra i generi, i suoni, i tempi e gli stili. Sta di fatto che Murdoc, Noodle, Russel e il bistrattato 2D anche questa volta sono riusciti a dare una cornice (quasi) sempre inoppugnabile a un coloratissimo e variegato mazzo di brani riciclare con classe gli stilemi a disposizione all’interno della cultura pop . Il biondo londinese saccheggia senza ritegno dai frammenti impazziti che ci schizzano addosso quotidianamente in quest’era di iperstimolazione (musicale, visuale, culturale, sensoriale e quant’altro), ne pesca alcuni elementi, li frulla con un pizzico di e ce li restituisce come un mix coerente e raffinato, come un cocktail fatto con gin da discount, ma mescolato e servito così bene che nemmeno ce ne accorgiamo. Così, la peggiore cassa in 4/4 mai sentita in radio diventa la base travolgente e acchiappona di , il pezzo che vede coinvolti ancora una volta i De La Soul. Così l’abusatissimo sound disco-r’n’b di fine anni ’70 diventa il mood perfetto per il funk ballabile e “de core” (giusto per non scrivere , ché qui si sta abusando di anglicismi) di Strobelite. Nulla suona nuovo, ma tutto suona diverso, gli accostamenti sono bizzarri ma piacciono e fanno muovere il culo. È finzione? È inganno? Può darsi. Sappiamo tutti quanto sia furbo Damon Albarn, e sicuramente sa come prendere in giro il pubblico e dargli quello che vuole. Ma se il prodotto è di questo livello, ogni volta (escluso il bruttino Come se non bastasse, in tutto ciò c’è anche un risvolto di , colonna sonora per un party apocalittico alla fine del mondo (e sono parole sue), nasce in tempi non sospetti dalla visione oscura di un’era segnata dalla Brexit e dalla vittoria di Trump negli Stati Uniti. Tant’è vero che i numerosi , fatte a posteriori per non legare troppo strettamente i brani al momento contingente. Come segue il filo di numerosi temi sociali, dalla politica conservatrice al ritorno dei localismi, dalle dipendenze alla diffusione delle armi leggere, dalle disuguaglianze razziali alla necessità di mobilitare le masse. Nel primo interludio, , una folla ripete le parole “I promise to be different! I promise to be unique! I promise not to repeat things other people say!”, creando una sensazione abbastanza alienante. Albarn incoraggia le persone a svegliarsi. “Stay woke”, come direbbe Childish Gambino in : stiamo all’erta, stanno succedendo delle cose importanti intorno a noi. MA – e qui arriva il ma – è vero che, con tanto materiale a disposizione, , si è perso nell’abbondanza e non è riuscito a regalarci il pezzone da è sicuramente un bel lavoro, ciclopico e complesso. Al tempo stesso, però, quando la senti passare, e che canterai ancora tra qualche anno. . Ci sono tanti bei pezzi – praticamente tutti lo sono – con qualcuno che spicca più degli altri, come la martellante . Ma forse nessuna banca userà uno di questi brani per dieci anni della sua pubblicità, e io non suonerò ossessivamente il giro di basso di Clicca per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra) Clicca per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra) Clicca per condividere su Pinterest (Si apre in una nuova finestra)