“L’altro volto della speranza”: dove il cambiamento incontra la solidarietà
è buia, di un buio nero pece. Sul molo, le ruspe si muovono come giraffe dal collo alto, alzandosi e abbassandosi per scaricare materiale dalla nave merci Eira (agognata meta in ). Da un cumulo di carbone si spalancano due grandi occhi, incorniciati dal volto di un uomo sporco di un pesante strato di fuliggine, nero come la notte finlandese. È il volto di . Cambia la scena. Un uomo riempie una vecchia valigia di pelle con i pochi abiti che possiede. Al tavolo della cucina siede una donna, ciocche di capelli tirati nei bigodini. Chiusa la valigia, l’uomo le si avvicina, si sfila dall’anulare sinistro la fede e la posa sul tavolo, insieme ad un mazzo di chiavi. È ) porta sullo schermo una delle grandi tragedia del presente, quella di ; qui ha deciso di denunciarsi alla polizia, entrando presto in un centro di accoglienza, dove, come in un limbo o un purgatorio, tanti altri sono in attesa del verdetto delle autorità locali sulla loro sorte. Le aspettative e la fiducia di Kalhed nelle istituzioni vengono deluse molto presto e si ritrova così costretto nuovamente a scappare di nuovo. Ma è a questo punto che il racconto bipartito converge, quando le vite di Kalhed e Wikstrom si incrociano. Anche lui sta , per inseguire il suo sogno, quello di rilevare un ristorante in periferia. Aki Kaurismäki fa parte di quegli autori che si amano o si odiano: chiusa la parentesi spensierata della prima produzione ( ), negli anni ha consolidato uno stile rigoroso, dai dialoghi essenziali, scenografia spoglia, montaggio narrativo. È così anche , schierato categoricamente dalla parte di chi non riesce a difendersi con le proprie forze, dalla parte dei (“Ozu aveva sempre qualcosa di rosso. Una teiera o qualcosa del genere… Io uso gli estintori”), personaggi avvolti nel . Se talvolta l’occhio della telecamera appare esitare troppo su alcune sequenze, rimane altrettanto impossibile non gioire delle intuizioni riposte in alcuni . Si prenda, ad esempio, una delle sequenze iniziali, in cui Waldemar Wikstrom appoggia sul tavolo la fede prima di lasciare la moglie. Lei, perentoria, afferra l’anello, lo getta nel posacenere e vi spegne sopra la sigaretta che ha appena finito di fumare. Il loro nella cenere. Una delle prime cose che fa Kalhed, appena sbarcato in Finlandia, è lavarsi. Anche la sequenza della doccia è emblematica, i , scivolano in basso lungo le sue caviglie e, misti all’acqua, formano una grande pozza nera sopra lo scarico della doccia: è la metafora del male da cui sta scappando ma anche del viaggio affrontato, che vuole rimanere solo un ricordo. (più omogeneo dal punto di vista stilistico), il regista utilizza il . Si pensi infatti all’apertura del film ambientato in Francia: si apre proprio con un’inquadratura della mano del protagonista, il lustrascarpe Marcel Marx, mentre tiene un barattolo aperto di lucido nero. Uno dei nuclei tematici principali del film è proprio quello del cambiamento, del passaggio da uno stato a un altro (in senso geografico ed emotivo). non prescinde dalla fuga, interessa in modo trasversale molti dei personaggi: infatti sia Kalhed che Wikstrom, i due personaggi principali, sognano un futuro migliore e diverso, per se stessi e per le persone che li circondano. Kaurismäki aveva già inserito la storia di un , nelle trame di un suo lungometraggio, e lo aveva fatto nel 2011 ancora con , foss’anche per il finale o l’ambientazione, quel film raccontava infatti le vicende di un ragazzino africano arrivato in un container al porto di Le Havre in Francia nella quale versano entrambi i protagonisti innesta un meccanismo contagioso di A ben guardare, quindi, la migrazione diventa un escamotage per costruire una in cui, a prescindere da appartenenza religiosa e estrazione sociale, degli individui si aiutano, in quanto esseri umani. Perciò, se il tribunale non accetta la richiesta d’asilo di Kalhed, perché soffocato nelle maglie di una burocrazia cieca che considera Aleppo una città nella quale sia ancora possibile vivere, allora sarà Wikstrom a trovargli un materasso, un lavoro e una carta d’identità falsa e, proprio come fa Marcel Marx con il giovane ragazzo africano in , di certo solidale, ma talvolta anche po’ opportunista. Infatti, il regista finlandese finisce spesso per rivelarci come i suoi personaggi – attenzione, : è un metodo stereotipizzante e autoironico, con un fine sicuramente comico. , quello tra la legge dello stato e la necessità dei personaggi di forzarla e di spingersi oltre. Questa , universale, che concerne il rispetto dei diritti umani, è antichissima: si pensi alle . A differenza di Antigone però, nei film di Kaurismäki, il personaggio che decide di forzare la legge in nome del valore universale della solidarietà umana non agisce solo. L’emarginato, il debole, trova sempre un cordone di solidarietà attorno a sé. É come se il regista volesse dirci che è impossibile compiere scelte difficili e determinanti per la nostra vita senza l’aiuto e la protezione di altre persone , ma ci mostra anche come queste persone esistano veramente, per questo risulta rassicurante. In questo senso il in piccolo, in cui Kalhed esperisce quel tipo di solidarietà che poi incontrerà nella figura di Wikstrom nel suo girovagare per Helsinki. . Kaurismäki mette in luce come questo tipo aiuto si innesti proprio negli , non solo istituzionali, cioè, come si è detto, dove le politiche non arrivano, ma anche , si accorge che l’altro è accampato tra i cassonetti del suo ristorante; segue una disputa sulla proprietà di quel luogo, che muta indentità sulla base dell’uso (per Kalhed è la “camera da letto”, per Wikstrom solo un cassonetto della spazzatura), finché Wikstrom non mette da parte la contesa e riconosce in Kalhed una persona che ha bisogno d’aiuto. Ed è dal marciapiede che si solleva un vero e proprio corrono in aiuto di Kalhed quando tre guardie della Liberation Army Finland stanno per aggredirlo fuori da un locale. Per ripulire la loro Helsinki dagli . In modo totalmente irrealistico, questo piccolo gruppo riesce però a spaventare i tre grossi fascisti minacciandoli con una bottigliata in testa, portandoli poi alla fuga. Forse perché – metaforicamente – l’ignoranza non può nulla contro il potere della solidarietà, anche quando questa si presenta in stampelle e calzoni bucati; motivo per cui, quando uno di questi uomini della Liberation Army Finland cercherà nuovamente di vendicarsi contro il siriano Kalhed, al grido di “maledetto ebreo” (?), non otterrà il risultato sperato: , in cui Marcel Marx incontra casualmente per la prima volta, decidendo di aiutarlo, , sotto un molo del porto (come le stazioni, e gli aeroporti, non-luoghi per eccellenza) di Le Havre. Forse Kaurismäki ci vuole dire che è proprio in questi spazi urbani non controllati che è possibile raggirare le istituzioni , nel momento in cui operano in modo, se non totalmente privo di senso, almeno disumano. Clicca per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra) Clicca per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra) Clicca per condividere su Pinterest (Si apre in una nuova finestra)
