Cavallo Pazzo non muore mai negli incubi dei “visi pallidi”

Nel marasma geopolitico della successione Obama – Trump, una cosa si può dire con certezza. Il neo presidente USA mantiene le promesse fatte. E, in questo caso, non è l’unico.

Dopo la decisione di riprendere la costruzione dei contestati oleodotti Dakota Access Pipeline (DAPL) e Keystone XL, sono infatti riprese di pari passo le contestazioni della tribù Sioux di Standing Rock che, durante la legislatura precedente, avevano convinto l’ex presidente a rivedere il progetto, bloccandolo momentaneamente. Le loro terre, a cavallo tra il South e il North Dakota, sembravano salve.

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Il percorso previsto per l’oleodotto. Fonte: Dakota Access Pipeline Facts

Facciamo un passo indietro. Nel 2014 la ditta Energy Transfer Partner diede il via alla costruzione di un oleodotto – il Dakota Access Pipeline – lungo oltre 1.800 chilometri e che, nei disegni originari, avrebbe dovuto trasportare 64 milioni di litri di petrolio al giorno. La costruzione dell’oleodotto si prevedeva sarebbe costata circa 3,8 miliardi di dollari; l suo percorso, semplice e lineare, avrebbe dovuto dipanarsi da South e North Dakota, per poi scendere verso Iowa e Illinois.

L’aria, però, iniziò a farsi veramente tesa nel luglio 2016, quando i Sioux di Standing Rock si opposero alla costruzione dell’oleodotto poiché questo avrebbe dovuto lambire la loro riserva, passando sotto il Missouri e il lago Oahe, mettendo in pericolo siti sacri e l’acqua stessa. Conseguenza di tale opposizione furono il più grande raduno di nativi americani dal 1973, sit-it permanenti, scontri, arresti sommari. Nel novembre 2016 è arrivata la decisione a firma del Genio Militare, sotto spinta di Obama: nonostante la pipeline fosse ormai conclusa, i lavori si sarebbero dovuti fermare. Un’eventuale ripartenza degli stessi è stata subordinata ad un’attenta valutazione circa l’impatto ambientale. Dopo l’elezione di Trump, si vociferava che difficilmente il neo Presidente avrebbe potuto andare contro una decisione presa dall’esercito – ma tutto si mostra in linea sulle previsioni azzardate sul tycoon, la sua elezione e il suo operato.

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In tutta questa storia, apparentemente comune, ci si dimentica che la tribù dei Sioux ha dato i natali a Cavallo Pazzo, Toro Seduto, Alce Nero e a tutto ciò che questo evoca e comporta. Nell’ultimo anno i media, le organizzazioni non governative e tanti supporter hanno denunciato molteplici violazioni di diritti fondamentali, tra i quali il diritto all’acqua e a manifestare in modo pacifico.

Edward John, Membro Esperto del Forum Permanente delle Nazioni Unite sulle Questioni Indigene (UNPFII), invitato da David Archambault, Presidente della Standing Rock Sioux Tribe, si mette in viaggio per il North Dakota nel novembre 2016, per verificare in prima persona lo stato effettivo della situazione. Il rapporto che ne esce ha tratti di drammaticità: si parla di “war zone conditions”, di maltrattamenti duranti gli arresti, di confisca di veicoli e di oggetti sacri e altro ancora.  Il “già visto” che si ripropone da due secoli per la gente di Cavallo Pazzo.

Dal canto suo, l’Energy Trasfert difende il suo diritto a costruire: il DAPL è il modo più sicuro, ecologico e tecnologicamente avanzato per trasportare petrolio dai pozzi naturali a beneficio dei consumatori americani. Il progetto si pone, inoltre, come risultato di un lungo processo di negoziazione tra il Genio Americano e le 55 tribù che si sono schierate contro la sua costruzione, un processo lungo 389 incontri, che ha portato ad innumerevoli modifiche e mediazioni. A chi rivendica il diritto ad acque incontaminate, l’Energy Trasfert risponde con numeri e fatti: il lago Oahe è già attraversato da ben otto oleodotti, che operano adiacenti al percorso del DAPL; quest’ultimo sarebbe peraltro costruito a profondità ben più significative, mantenendosi a 95 piedi sotto la parte inferiore del bacino idrico, arrivando a picchi di 115 piedi. Soprattutto, la pipeline attraversa terre private per il 99,98% del suo lungo tragitto, non sfiorando nemmeno i terreni della riserva di Standing Rock. Eppure, quella terra i Sioux la sentono come fosse loro – come lo era un tempo, prima di essere espropriati.

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Fonte: Michael Nigro/Pacific/Barcroft (The Guardian)

L’opinione pubblica immagina una battaglia condotta tra sceriffi del far west e lakota con la sacra pipa, tra cavalli furibondi e bisonti inferociti. La componente mitologica esiste, ed è ancora la più affascinante. Ricondurre tuttavia i contestatori ad un immaginario da film western sarebbe fortemente riduttivo: la protesta, infatti, si è sviluppata secondo le tecniche più avanzate di comunicazione, senza tralasciare il fondamentale apporto dei social network.  I leader della protesta sono infatti riusciti a costruire una strategia social in grado di amplificare il proprio grido, raccogliendo consensi sparsi in tutto il mondo, mandando allo stesso tempo in tilt l’intero apparato di sorveglianza. Un episodio su tutti testimonia la capillarità e la potenza di queste attività. Nel pieno della battaglia, più di un milione di persone ha effettuato il check-in su Facebook presso la riserva indiana di Standing Rock, per proteggere gli attivisti del North Dakota impegnati sul campo a protestare. Il dipartimento della contea di Morton, preso alla sprovvista, perse così la capacità di individuare e controllare chi effettivamente si trovava presente nel sit-in della Riserva.

Ad oggi, la campagna continua in modo sempre più serrato, con l’obiettivo di diffondere le ragioni di questi “protettori dell’acque”, come si fanno chiamare, e sensibilizzare un numero sempre maggiore di persone. I numeri salgono, e provengono da tutto il mondo. Esemplificativo in tal senso il post di “chiamata alle armi” pubblicato sulla pagina Facebook il 24 gennaio, giorno in cui Donald Trump ha firmato il contestato decreto, che ha ottenuto una risonanza globale e numeri da capogiro in fatto di interazioni: oltre 54mila condivisioni, più di 36mila reactions e quasi 2mila commenti. Il novero di fan della pagina è cresciuto in pochi giorni di oltre 20mila unità: circa il 20% dei sostenitori della community non risiede negli Stati Uniti, dato che testimonia la portata globale del movimento.  I seguaci della protesta si fanno sempre più agguerriti, dopo il benvenuto dato loro da Trump, e non si danno per vinti, nonostante i risvolti a loro contrari.  La promessa fatta al mondo intero di preservare i territori dal passaggio dell’oleodotto non demorde, nemmeno in questo caso.

Donald Trump Dakota Access Pipeline Sioux firma
Fonte: Shawn Thew/EPA (The Guardian)

Gli americani conoscono la tenacia di questa tribù. Durante i primi contatti, i Sioux furono in relazione amichevole con i “visi pallidi”, ma quando furono costretti a difendere i loro antichi territori li combatterono strenuamente. Sconfissero il generale Crool a Rosebund ed annientarono Custer a Little Big Horn. Combatterono la loro ultima battaglia nel 1890, contro un nemico dalla schiacciante superiorità numerica.

Come nella più classica letteratura cinematografica, attendiamo ora di vedere se Cavallo Pazzo si arrenderà anche questa volta a Forte Robinson, colpito da una baionetta di un soldato semplice americano, o se riuscirà invece a tenere testa a questa nuova dimostrazione di potere.  

“Come potete acquistare o vendere il cielo, il calore della terra? L’idea ci sembra strana. Se noi non possediamo la freschezza dell’aria, lo scintillio dell’acqua sotto il sole come e’ che voi potete acquistarli? Ogni parco di questa terra e’ sacro per il mio popolo. Ogni lucente ago di pino, ogni riva sabbiosa, ogni lembo di bruma dei boschi ombrosi, ogni radura ogni ronzio di insetti e’ sacro nel ricordo e nell’esperienza del mio popolo. La linfa che cola negli alberi porta con se’ il ricordo dell’uomo rosso. Noi siamo una parte della terra, e la terra fa parte di noi”.

Capo  Seattle in risposta al Presidente Franklin Pierce, che nel 1854 propose l’acquisto delle terre degli Indiani, in cambio di una Riserva.

Camilla Mantegazza

PS: il CEO dell’Energy Transfer, Kelcy Warren, ha sovvenzionato la campagna elettorale di Trump, con una donazione di 100 mila dollari.

[La fotografia di copertina è stata tratta dal The Guardian – ddp USA/Rex/Shutterstock]

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