Avete presente quei libri cartonati per bambini, quelli che insegnano l’alfabeto, dove ad A corrisponde “Albero”, a G “Gatto” e a M “Mamma”?
Ecco, questo articolo funziona allo stesso modo, anche se sconsigliamo la lettura ai pargoli, e ci consentirà di passare in rassegna fatti e personaggi di questa campagna referendaria ormai al termine, con un’attenzione particolare agli strascichi che lascerà.
Cominciamo.
A come ANPI
Ancora prima di Zagrebelsky, di Travaglio, di De Mita, di qualunque altro interlocutore inseguito da un bulimico Renzi a caccia di confronti televisivi, venne Smuraglia.
Il dibattito tra il premier ed il presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani, avvenuto in settembre alla Festa dell’Unità di Bologna, a chiusura di un’estate di polemiche fratricide sulla possibilità per ANPI di promuovere il No al referendum all’interno delle rassegne del PD, raffigura plasticamente l’inedito ingresso dell’associazione nell’agone politico quotidiano.
Ciò ha comportato esagerazioni e passi falsi di cui ANPI è stata talvolta vittima, talvolta complice: dalla becera polemica sul voto dei “veri partigiani” alle (non sempre verificate) espulsioni dei dissidenti, alla piazza condivisa con Casa Pound.
Nessuno mette in dubbio il diritto dell’ANPI di schierarsi su una riforma costituzionale di tale impatto: peraltro in molti comuni la posizione di contrarietà si è accompagnata con l’organizzazione di incontri informativi cui partecipavano esponenti di entrambi i fronti.
Il problema semmai è un altro, e parte dal presupposto che nemmeno i più competenti e critici oppositori della riforma ritengono questa possa portare a una deriva autoritaria.
E allora, gettare nella mischia quotidiana i valori dell’antifascismo e della Resistenza di cui ANPI si erge a custode, significa farne un elemento di divisione quando il nostro Paese, ancora così pericolosamente attratto da fascismi di ogni genere, avrebbe bisogno di farne un patrimonio unitario.
B come Berlusconi (riforma di)
La campagna elettorale volge al termine, dunque più che un appello, il mio non può essere che uno sfogo.
Per favore, vi prego, vi scongiuro: ogni volta che dite che la proposta di riforma attuale è uguale a quella avanzata da Berlusconi nel 2006 uno studente di scienze politiche muore.
Sì, è vero, il disegno del Senato di allora assomiglia a quello attuale.
Ma la riforma del 2006 consentiva al Premier di insediarsi senza richiedere la fiducia, di nominare e ritirare le deleghe ai ministri, di poter sciogliere la Camera; in più sarebbe entrata in vigore la sfiducia costruttiva (che richiedeva di individuare entro tempi brevi un governo alternativo formato dalla medesima maggioranza!), mentre il Presidente della Repubblica si sarebbe visto spogliato delle sue prerogative e sarebbero aumentati i membri della Corte Costituzionale di nomina politica. Per non parlare della devolution di poteri a favore delle regioni – mentre la proposta attuale viene spesso tacciata di eccessivo centralismo.
Hanno denunciato questo supposto parallelismo anche intellettuali di fama come Settis e Zagrebelsky, cui fatico a credere possa essere inavvertitamente sfuggita la svolta presidenziale del 2006. Farebbe bene al nostro dibattito politico che almeno chi ha competenze ed esperienza per portare argomenti alti e veritieri non cadesse in simili strafalcioni.
C come Combinato disposto
Ah, la legge elettorale che tutti ci invidieranno! E’ vero che il 4 dicembre non si voterà sull’Italicum, ma lo è altrettanto che la legge elettorale sia determinante nel disegnare il sistema politico e istituzionale in cui vivremo, e dunque vada attentamente considerata.
L’Italicum è oggettivamente molto discutibile, tanto che su di esso pende la spada di Damocle della sentenza della Corte Costituzionale, e che persino il partito che ne fu padre orgoglioso prepara modifiche. Non perché fornisca maggioranze insormontabili in senso assoluto (340 seggi, con maggioranza a 316 – negli ultimi quindici anni alla Camera le maggioranze sono sempre state più ampie), né in grado di eleggere autonomamente gli organi di garanzia. Quanto perché il meccanismo del ballottaggio in un sistema tripolare finisce per premiare una minoranza e in generale il “voto contro”.
Comunque vada il 4, dal 5 dicembre si parlerà soltanto di leggi elettorali, sia per la Camera che per il Senato. Ecco allora alcune questioni da tenere a mente.
Uno. Il proporzionale puro è il massimo garante della rappresentatività, ma porta a larghe coalizioni e compromessi tra partiti: si deve accettare il pacchetto completo.
Due. Le preferenze possono riavvicinare il cittadino, ma non sempre in termini positivi: possono facilitare voto di scambio e clientele in ragione delle quali furono abolite da un (datato) referendum.
Tre. Più vasti sono i collegi, più si allontanano i rappresentanti dai rappresentati, ma più si circoscrivono più ci si avvicina a modelli fortemente maggioritari.
Quattro. Può capitare che i partiti scelgano i propri candidati sul territorio: la selezione della classe dirigente peraltro sarebbe il loro compito principale da che democrazia è democrazia.
Insomma, ogni scelta ha i suoi pro e i suoi contro: ricordarsene quando tutti diventeremo esperti di leggi elettorali sarebbe atto di benvenuta onestà intellettuale.
D come Ditta
Chi avrebbe mai immaginato, il 27 marzo 2013, terminato l’impietoso confronto in streaming tra Pierluigi Bersani e i neoeletti Cinque Stelle, che tre anni dopo tra l’ex segretario PD e Alessandro Di Battista ci sarebbero stati convenevoli e pacche sulle spalle? Potere del referendum, evidentemente.
Il No di Bersani e di alcuni componenti della minoranza PD (ulteriormente ridotta dallo sforzo di conciliazione di Gianni Cuperlo) era nell’aria da mesi ma si è palesato soltanto a ridosso del voto, e non nella forma di una semplice e personale “obiezione di coscienza”, ma con un’instancabile partecipazione ad iniziative per il No in tutta Italia.
Capita allora di ascoltare deputati e senatori che hanno votato più volte a favore della riforma, elencarne tutti gli insormontabili difetti, alimentando il sospetto che il No non sia esclusivamente sul testo della revisione costituzionale, ma sulle firme in calce ad essa.
Tutto legittimo, specie a fronte di passaggi di tale impatto nella vita politica di un paese, anzi coloro che sul fronte renziano hanno gridato “fuori, fuori” non hanno dato grande prova di sé (quantomeno da un punto di vista strategico).
Resta il fatto che nel maggiore (forse) partito italiano si è aperta una frattura molto complessa da saldare: che a provocarla sia stato il teorico della “Ditta” lascia sicuramente amaro nella bocca di quella gente – “la nostra gente”, per dirla alla Bersani – che, a torto o a ragione, è cresciuta con il culto dell’unità.
E come Editoria
Stefano Ceccanti, “La transizione è (quasi) finita”. Salvatore Vassallo, “Liberiamo la politica, prima che sia troppo tardi”. Giovanni Guzzetta, “Italia si cambia”. Guido Crainz e Carlo Fusaro, “Aggiornare la Costituzione”.
Gustavo Zagrebelsky, “Loro diranno, noi diciamo”. Salvatore Settis, “Costituzione!”. Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, “La tua giustizia non è la mia”. Nadia Urbinati e David Ragazzoni, “La vera Seconda Repubblica. L’ideologia e la macchina”. Marco Travaglio, “Perché No: tutto quello che bisogna sapere sul referendum e contro la schiforma Boschi-Verdini”. Michele Ainis e Vittorio Sgarbi, “La Costituzione e la bellezza”.
E, credetemi, ce ne sono ancora molti. Ecco svelata la finalità recondita di questo referendum: risollevare l’editoria.
F come Figurine
Un Brunetta per un Verdini? Ho un Marchionne doppio, lo scambi per un Salvini e una Meloni? E che dire dell’introvabile ambasciatore americano Phillips, novello Pizzaballa? Uno degli argomenti più infimi di questa campagna elettorale, specie a sinistra, consisteva nell’elencare le adesioni scomode nel campo avverso. Finiamola subito: i referendum offrono due scelte, due sono i mucchi che ne sortiscono, e così come avviene per i rappresentanti più alti (o presunti tali) della nostra società, anche gli impresentabili finiscono per suddividersi più o meno equamente.
Certo, osservare la coerenza interna degli schieramenti, o i relativi capofila politici che passeranno all’incasso in caso di vittoria, è una pratica legittima, ma ha valore dal 5 dicembre in poi. Se poi proprio qualche testardo volesse esercitarsi ancora nello stilare elenchi di buoni e cattivi, ricordiamo un vecchio adagio sportivo: i punti (o i goal) non si contano, si pesano. E così le presenze impresentabili.
G come Gratis
L’abbattimento dei costi della politica è un argomento sul quale Renzi insiste frequentemente, probabilmente convinto di parlare in tal modo alla pancia del Paese. Se vincesse il Sì, lo abbiamo sentito dire, risparmieremo 500 milioni di euro all’anno, tra Senato, Regioni e definitiva soppressione delle Province – a dire la verità, le stime terze si attestano intorno ai 160 milioni.
Ecco allora che il Movimento 5 Stelle presenta alla Camera una mozione per il dimezzamento degli stipendi dei parlamentari, di grande impatto mediatico e scarsa rilevanza pratica, as always.
Perché invece non abbassare gli stipendi dei parlamentari a seconda delle assenze dai lavori d’Aula , ribatte nuovamente il PD.
Tutto ciò per dire che questa rincorsa a chi offre di meno ha ormai lo stesso tono di una televendita di set di pentole, con la classica mountain bike con cambio Shimano in omaggio alle prime dieci telefonate.
Sarebbe educativo si spiegasse che la politica ha costi, e che certi privilegi possono essere rimossi il giorno dopo le elezioni, e non quello prima (come fatto dalla Regione Emilia Romagna con lo stipendio dei consiglieri). E invece si preferisce sfidare i populismi giocando sul loro terreno. Ma attenzione, tra l’originale e la copia, raramente è la seconda a prevalere.
J come JP Morgan
Il dato saliente delle ultime elezioni sembra essere il fatto che laddove i cittadini intravedano scritto sulla scheda “Establishment”, votino automaticamente dalla parte opposta. Da che parte stanno i poteri forti? La finanza è per il sì? La casta per il no? E poi, alla fine, chi sarebbero i poteri forti? E siamo davvero convinti che si paleserebbero apertamente?
Si dice che questa riforma costituzionale sia voluta da JP Morgan, basandosi su un documento del fondo di investimento pubblicato nel 2013, all’interno del quale si denunciano presunte debolezze strutturali dei paesi del sud Europa, alcune delle quali sono dati di fatto (esecutivi deboli, potere centrale debole) altre considerazioni aberranti (tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori).
Pochi in realtà sono stati in grado di dimostrare rapporti di causalità tra il generico invito alle riforme d JP Morgan ed il testo della riforma costituzionale – a maggior ragione per il fatto che quest’ultima riprende (secondo alcuni snaturando) idee che risalgono a programmi politici di vent’anni precedenti alle ventuno righe estratte dal documento incriminato.
Ci si potrebbe dilungare, citando l’ambivalenza dell’Economist o gli scenari catastrofici del Wall Street Journal. Ma forse è meglio chiudere ricordando che la finanza ed altri poteri tutt’altro che democratici hanno la meglio quando la politica non è sufficientemente forte da contrastarli: questa riforma in che direzione va? Ci sono sufficienti argomentazioni per discutere di questo senza ipotizzare complotti internazionali.
M come Mezzucci
Fino a che punto i fini giustificano i mezzi? Fino a che punto, per provare a recuperare voti al Sud si evoca nuovamente il famigerato Ponte sullo Stretto? Fino a che punto l’impennata dei toni nei confronti dell’Unione Europea è effettivamente volta ad allentare le maglie dell’austerity, o piuttosto a guadagnare facile consenso da una baruffa con un’istituzione impopolare? Fino a che punto gli sgravi alle assunzioni in meridione hanno il meritorio scopo di alimentare l’occupazione in regioni bisognose di aiuto?
Qualcuno già rievoca i famosi 80 euro annunciati alla vigilia delle Europee 2014, quando il PD ottenne il 40% dei voti, ma Renzi non vuole sentir parlare di mancette, ribattendo che se fosse stato promosso a fini elettoralistici, quello sgravio non sarebbe attualmente in vigore.
Siano mezzucci o maliziosi sospetti quelli sopraelencati, emerge un problema paradossalmente più grave, ovvero l’apparente assenza di un disegno, di una strategia di fondo, senza la quale gli investimenti (che in parte ci sono pure stati) restano interventi una tantum, privi di continuità e di prospettive, da finanziare con altrettanto debito o tagli, puntualmente reali.
P come Permanente
Questa campagna referendaria vi ha stremato? Abbiamo una notizia per voi: dal 5 dicembre ne comincerà un’altra! Fare previsioni è sempre complesso, ma appare sempre più ragionevole credere che la legislatura non arriverà alla sua scadenza naturale.
Se vincesse il No, Renzi ha più volte promesso di dimettersi (una sorta di profezia auto-avverantesi se i sondaggi verranno confermati); a quel punto sarebbe un governo “di scopo” ad assumersi l’incarico di stilare rapidamente una nuova legge elettorale per rimandare gli italiani al voto. Come alcuni osservatori hanno notato, c’è sconfitta e sconfitta: se il Sì superasse il 40% il premier avrebbe convenienza a capitalizzare un monte di voti conquistato pressoché in solitaria, a fronte di uno schieramento per il No maggioritario ma frammentato.
Ma se vale questo ragionamento, a maggior ragione il premier potrebbe tentare un ritorno alle urne anticipato per sfruttare l’onda lunga del voto referendario.
Dunque, a meno di un crollo che al momento i sondaggi non pronosticano, dopo Renzi pare esserci ancora Renzi – non necessariamente come Presidente del Consiglio ma come attore centrale della politica italiana.
Un presagio di sventura, per alcuni dei lettori, una rassicurazione forse per altri; potremmo scommettere però che la campagna elettorale permanente in cui rischiamo di immergerci suona male tanto alle orecchie dei primi che dei secondi.
S come Scrofa!
Nell’era politica del “#ciaone” e del “Vaffanculo”, il rispetto delle opinioni avverse rimane soltanto una premessa da invettiva, seguita puntualmente da un ma. Renzi è “una scrofa ferita che si dimena”; chi vota sì è “un serial killer del futuro dei nostri figli”: questo per parlare il linguaggio di quella parte del popolo dei social che affolla le bacheche delle figure pubbliche augurandogli i peggiori mali (non pensiamo solo a Laura Boldrini, ma anche, ad esempio, al sindaco di Fidenza Massari, reo di aver presenziato insieme al premier all’inaugurazione del nuovo Pronto Soccorso della città). Ma il disprezzo può esprimersi anche in parole forbite: all’indomani del dibattito Renzi-Zagrebelsky, che secondo Scalfari era stato vinto dal primo, l’eccellente politologa Nadia Urbinati scrive a Repubblica che non avrebbe più comprato il giornale in quanto fazioso – impossibile infatti che “un furbettino analfabeta” avesse prevalso su un “finissimo intellettuale”. Altri agitano la chiosa di un recente editoriale di De Mauro (“è difficile liberare gli schiavi che si credono liberi”), a proposito di superiorità morale.
Ma d’altronde, se i professori sono chiamati “parrucconi”, gli avversari politici “gufi”, può capitare che rispondano indispettiti.
Al photofinish, tuttavia, la palma di insulto più grave va indubbiamente al Presidente del Tribunale di Bologna Caruso che paragona chi vota sì (voto a suo avviso fondato su corruzione e clientelismo) ai repubblichini di Salò. Che saggio garante del diritto!
T come Tremaglia
Ricordate Mirko Tremaglia? Oltre ad essere un fascista militante nella Repubblica di Salò fu anche ministro del secondo governo Berlusconi. A lui si deve la legge per il voto degli italiani all’estero, non soltanto per le politiche ma anche per i referendum nazionali. Questo istituto ha storicamente favorito il centrosinistra, tanto che nel 2013 fu proprio il voto d’oltralpe (o oltreoceano) a consegnare il premio di maggioranza alla Camera al PD e non al M5S.
Qualora il risultato del referendum del 4 dicembre dovesse decidersi al fotofinish, potrebbero essere il milione e seicentomila voti dall’estero (che si stima possa arrivare a pesare fino al 5% se l’affluenza generale toccherà quota trenta milioni) a risolvere la contesa. Ecco spiegati i tour nelle comunità italiane oltralpe del Ministro Boschi e di Luigi Di Maio; ecco spiegato il livello di attenzione (e di tensione) sulle modalità di voto a distanza e sulle possibilità di brogli.
Certo, promettere ricorsi soltanto in caso di prevalenza del Sì tra gli elettori della circoscrizione estero, come fatto dal costituzionalista Alessandro Pace, presidente del Comitato per il No, non sembra un buon modo per accattivarsi le simpatie dell’ultim’ora dei residenti all’estero.
Un pensiero su “L’ABC della campagna referendaria”