Quando mi è stato chiesto di interessarmi al decimo Terra di Tutti Film Festival non avevo idea di quello che mi attendesse. Non era la prima volta che, da redattore culturale, mi avvicinavo al cinema di umanità: la redazione di The Bottom Up è da sempre sensibile a ciò che accade intorno a noi, ad altre latitudini, laddove i diritti fondamentali dell’uomo vengono violati. Così ho avuto l’occasione di vedere documentari il cui intento era soprattutto quello di far luce su problematiche che non arrivano facilmente all’interesse dell’opinione pubblica, drammi particolari da altri mondi che ci toccano solo trasversalmente. L’intento divulgativo di questo tipo di documentarismo porta gli autori a produrre opere dal tono fortemente narrativo: l’inchiesta viene condotta per il pubblico che viene informato sulla realtà dei fatti attraverso le modalità del racconto, come fa un bravo insegnante o un padre con il figlio (o come farebbero gli Angela). In molte opere del Terra di Tutti, invece, viene proiettata la realtà cruda e senza filtri, senza imbellettature, diretta come un pugno nello stomaco. Ed è una realtà che ci interessa tutti, per due ragioni.
Siamo il centro del Mondo
La prima ragione è che viviamo in una “Fortezza Europa” – come una delle tematiche del festival – divisa tra il respingere e l’accogliere l’onda migratoria senza precedenti, della quale è la meta finale. Un flusso umano continuo approda sulle coste italiane, al termine di un viaggio atroce, in cerca di un futuro lontano da morte e devastazione: cosa c’è ad accogliere questa muta umanità? L’attesa infinita in un centro d’accoglienza, la clandestinità, lo sfruttamento, il caporalato (sarà argomento di The Harvest. Storie di un nuovo caporalato agricolo in Italia, presentato all’inaugurazione del festival), una corvée moderna. Oppure, laddove è favorita l’integrazione, la possibilità di un nuovo inizio: una casa, un lavoro, il contributo attivo all’interno di una comunità che trovi nelle altre umanità una possibilità di rinascita, come accade in Un paese di Calabria (vincitore del Premio Benedetto Senni) di Shu Aiello e Catherine Catella: una Riace spopolata dall’emigrazione meridionale rivive grazie ai nuovi arrivi. A Riace i migranti imparano l’italiano, prendono confidenza col nuovo paese, l’incontro fra culture è proficuo per entrambe le parti – se ancora esistono, delle parti. Qualcuno continua il suo viaggio, altri invece restano, trovano a Riace la loro casa, come quel muratore curdo che dice: «Quando guardo questa terra mi sembra di essere in Kurdistan, questo è il mio Kurdistan». Nel film di Shu Aiello e Catherine Catella sono raffigurati con poetica delicatezza, il valore dell’accoglienza e il concetto di rinascita ai quali si lega, impalpabile come un sussurro, il ricordo di chi, a suo tempo, è stato costretto ad andarsene, un chi eravamo che ci porta al secondo punto.
Facciamo parte dello stesso Mondo
La seconda ragione, che mi ha spinto a questo report emozionale, è che viaggiare con lo sguardo verso mondi – in apparenza – altro non fa che confermare la totale uguaglianza degli uomini in ogni parte della Terra: qualunque sia la latitudine, quali che siano i costumi, ogni uomo e donna sul pianeta aspira allo stesso diritto, la libertà. Libertà di vivere pacificamente la propria esistenza, di avere una casa, un lavoro gratificante, di seguire le proprie passioni (Boxgirls di Jaime Murciago Tagarro, e Tanger Gool di Juan Gautier), libertà di culto, libertà, quest’ultima, troppo spesso limitata: è il caso di Saida despite ashes, di Soumaya Bouallegui, che mostra le conseguenze della distruzione del santuario di Saida Manoubia nel corso di un’ondata fondamentalista che nel 2012 ha portato alla distruzione di svariati santuari Sufi in Tunisia. Ancora, questa libertà di culto viene ferocemente negata dall’Isis ai curdi iracheni, i quali hanno riscoperto le proprie origini nel culto zoroastriano, soppiantato dall’Islam e riscoperto dopo 1437 anni; e proprio After 1437 years è il titolo del documentario di Tania Raouf. Tra le persone intervistate dalla Raouf – se di “intervista” si può parlare, mancando un interlocutore dietro la telecamera – c’è anche uno studioso che sostiene che dove ci sono religione e fondamentalismo non può esserci ragione né convivenza; poco prima si vedono immagini girate dall’Isis, un prigioniero viene schiacciato da un carrarmato. È la realtà cruda e senza filtri, non c’è il belletto finzionale della narrazione, diretta come un pugno nello stomaco. La libertà pagata col sangue e l’emigrare sono drammi che ci appartengono per ragioni storiche e, ancor più, perché sono drammi umani, reali, attuali, appartengono a tutti gli uomini di tutta la terra. Questo è quello che ho visto al Terra di Tutti.
Homo sum, humani nihil a me alienum puto – Terenzio
Matteo Cutrì