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Elena Ferrante è Pablo Pabli

Chi è Elena Ferrante? Che identità si cela sotto questo misterioso nome? Quanti anni ha Elena Ferrante? È davvero Anita Raja? Ma soprattutto, chi se ne frega? Sarebbe stato diverso se la fortunata saga dell’Amica geniale fosse stata partorita da un tal Luigino Stupazzoni, Pablo Pabli o magari Sofia Torre? Certo. A quest’ora Sofia Torre sarebbe miliardaria e libera di sperperare il suo patrimonio in pelapatate colorati, divani gonfiabili e slip con la faccia di Stalin. Sarebbe stato diverso ai fini dell’opera? Assolutamente no.

Cosa rende un’opera d’arte degna del suo nome? La fruibilità necessaria? I dettami del mercato? Il parere dei critici? Un famoso personaggio di un ancora più famoso film di Monicelli si poneva domande simili: “Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”. Come Montanelli, non sono degna di paragonarmi al Perozzi che descrive il Necchi, ma ne condivido il pensiero.

A mio avviso, per definire la qualità di un’opera di narrativa, quello che ha importanza non è l’appartenenza o la mancata appartenenza a una data classe sociale, un determinato paese o un club dell’uncinetto additabile come casta lanosa, quello che conta (ahimè, a molti sfugge) è l’opera stessa.
Non si può dire che il “periodo rosa” di Picasso sia stucchevole, melenso e che ti faccia venire voglia di infilare la faccia nel frullatore, perché Picasso è il grande artista del cubismo che tutti celebrano e che probabilmente nessuno capisce. Non si può dire che il vero grande problema del non diventare tutti vegetariani è che la porchetta è la cosa migliore del mondo dopo Game of Thrones, no, dobbiamo tutti spacciarci per anemici e/o cagionevoli per non macchiare (sull’Internet) la nostra anima candida. Tutto questo è ridicolo.

L’ex misteriosa autrice racconta, nei suoi romanzi più famosi, l’amicizia fra Lila e Elena, che nasce in un clima di soprusi, povertà, privazioni e soprattutto di violenza, domestica, mafiosa e quotidiana, raccontata come fosse la normalità, l’unica forma di comunicazione possibile in una vita costruita come un vicolo cieco. Nella più assoluta libertà creativa, Ferrante (o Anita Raja, o il Conte Stucaz che dir si voglia) ha prodotto romanzi brillanti e coraggiosi, in cui donne apparentemente libere e realizzate si trovano a fare i conti con l’ambiente crudo, coercitivo e apertamente misogino in cui sono cresciute. I temi sollevati dal polverone Ferrante sono tanti, e vanno dal ruolo dell’arte nella società al ruolo della società nell’arte. Quale dei due pesa di più? È il contesto che ci definisce come individui, o quello che facciamo può esistere e avere valore (in questo caso artistico, letterario e di svago) a prescindere dal nostro riciclare correttamente i rifiuti o annegare non correttamente i gattini?

Si è parlato (troppo) a lungo dell’identità celata dell’autrice. Qualcuno l’ha additata come una manovra ben riuscita di aumentare le vendite, qualcuno, fra un’amaca e un paio di mocassini pseudo-chic (Michele Serra), l’ha paragonata addirittura a Salinger per la fuga dalla pazza folla. Si è parlato fin troppo del (mancante) contesto e poco del testo di per sé. Si è citato, ossessivamente, “il diritto dei lettori di conoscere”, forse dimenticando che esiste anche il diritto di non farsi conoscere e di chiedere un po’ di oblio, di silenzio, quanto è stressante essere la moglie di qualcuno, il marito di nessuno, quello che viene invitato per l’aperitivo mentre tutti gli altri restano a cena.

Alla domanda di Paolo Di Stefano (Il Corriere della Sera-La Lettura) se non le fosse, in fondo, dispiaciuto scegliere l’anonimato, l’ex Elena Ferrante rispondeva:

No, nessun pentimento. A mio modo di vedere, ricavare la personalità di chi scrive dalle storie che propone, dai personaggi che mette in scena, dai paesaggi, dagli oggetti, da interviste come questa, sempre e soltanto insomma dalla tonalità della sua scrittura, è nient’altro che un buon modo di leggere. Ciò che lei chiama enfatizzare, se è fondato sulle opere, sulla energia delle parole, è un onesto enfatizzare. Ben diversa è l’enfatizzazione mediatica, il predominio dell’icona dell’autore sulla sua opera. In quel caso il libro funziona come la canottiera sudata di una popstar, indumento che senza l’aura del divo risulta del tutto insignificante. È quest’ultima enfatizzazione che non mi piace

E ora… “Un giornalismo invasivo che rovista nell’immondizia” (Libération), “Una scoperta positiva che riafferma attraverso l’identità della scrittrice il potere dell’appropriazione culturale” (il Sole 24Ore), “Ho già nostalgia di Elena Ferrante” (Michele Serra su Repubblica): il mondo del giornalismo e dell’opinionismo non richiesto si divide sulla scoperta dell’identità della Ferrante in schieramenti di rabbia, euforia, malinconia.
Non mancano, certamente, le voci fuori dal coro, come questa, fra l’indifferente e l’eroico: “Probabilmente ora che è uscita allo scoperto non scriverà un libro che racconta di quando mia zia Stella dimenticò in autogrill mio cugino Pitrì”.

Sofia Torre

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