Per chi è nato qui o l’ha visto con i propri occhi, dice Gideon Levi giornalista di Haaretz, questo è veramente il luogo del Male. Camminando per le sue stradine strette, arroccate, puoi percepire l’essenza dell’occupazione “nella sua forma più brutale, crudele e folle”. Rinchiusi come bestie dentro gabbie di ferro, bersaglio vivente dei sassi lanciati dagli israeliani. Vivono così i 160.000 palestinesi di Hebron, scortati per fare rientro a casa o per raggiungere la scuola. Rintanati come topi per paura di essere attaccati dai coloni. La Terra dei Patriarchi, come ama definirla qualcuno, è diventata l’immagine più eloquente di questo eterno conflitto. Una contesa antica come questa “Terra santa”, che qui si è reincarnata in una “banalità del male” che sembrava rimossa per sempre.
Le case di pietra dai tetti bianchi e i vecchi mercati, che un tempo animavano le vie del centro, sono solo un lontano ricordo. I negozianti hanno chiuso le attività e le case sono state abbandonate. A loro posto reticolati, check point e torrette d’avvistamento. In questo pezzo di mondo “dimenticato da Dio”, l’odio lo puoi toccare con mano. È sui volti della gente, nelle retate ingiustificate dell’esercito o scritto sui muri. Non sia mai dovessi dimenticartene. Un odio viscerale, che finisce per tramutarsi in violenza ed umiliazione. Trasforma le persone, persino i bambini, in belve feroci.
La nostra storia inizia così, in un piccolo ostello sul quale si intravede, a mala pena, una scritta bianca quasi sbiadita: Hebron park. Stanze minuscole e per la maggior parte senza finestre. Quella di Hebron, un tempo importante centro economico, invece è una storia lunga e tormentata. Luogo di sepoltura di Abramo, Isacco e Giacobbe è dal 1260 anche la città in cui sorge la Moschea di Ibrahim. Fin qui niente di nuovo. Se c’è qualcosa di certo in questo drammatico racconto, infatti, è proprio l’intrecciarsi di storia e cultura. Una liaison con la quale sarebbe bene imparare a convivere.
Per questo motivo le parole pronunciate da Shimon Perez all’Università ebraica di Gerusalemme suonano quasi profetiche: “Come un uccello non può volare con una sola ala, e come un uomo non può applaudire con una sola mano, così un Paese non può fare pace con una sola parte.. Per fare la pace bisogna essere in due”.
Da quando, nel 1968, i coniugi Levinger posero le basi per quello che sarebbe diventato l’insediamento più discusso, non c’è stata pace in questo angolo di West Bank. A poco o niente sono servite le denunce della Comunità Internazionale, i “Figli di Israele” non sembrano avere dubbi. Vantano un diritto biblico su questi territori e non perdono occasione per ricordarlo a chiunque si affacci da queste parti. Così, quella che all’apparenza potrebbe sembrare una contesa politica, qui acquisisce forti connotati religiosi esacerbandone lo scontro. Fino al punto da impedire alle bambine di andare a scuola o agli agricoltori della zona di raccogliere i frutti del loro lavoro. Il tutto nella completa indifferenza dei militari, spettatori inermi mentre un bambino di soli 7 anni viene aggredito da altri coetanei a pochi metri dalla porta di casa.
La voce dell’altoparlante lo ripete in continuazione. Una litania monotona e snervante: “Nessuno può stare per strada, dovete andare a casa. È vietato passeggiare. Chiudete tutto, anche le finestre”. La guerra qui non c’è, o meglio non ufficialmente. Non ci sono sirene antiaeree o colpi di mortaio. La guerra ad Hebron è psicologia, si manifesta nei volti stanchi e scoraggiati degli abitanti arabi. Le stesse facce, che quando le incroci per strada danno l’impressione che la storia si stia prendendo gioco di te. Come scriveva Hannah Arendt, però, “è nella natura delle cose che ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo sia destinata a ripetersi, anche quando non appartiene ad un lontano passato”.
Secondo Yehuda Shaul, ex militare israeliano, qui esistono solo due regole: “la prima è proteggere gli israeliani, l’altra è non arrestarli se commetto atti di violenza nei confronti dei palestinesi”. Le perquisizioni arbitrarie e le violazioni di domicilio sono all’ordine del giorno. All’addiaccio per ore ed ore, di notte o sotto la pioggia. Dal giorno in cui Golda Mayer decise di fondare la colonia di Kiryat Arba, sostiene Uri Avenry ex membro del Knesset, la minoranza israeliana non ha fatto altro che terrorizzare la maggioranza araba. Un clima di terrore, che ha spinto molti palestinesi a lasciare le proprie case, prontamente occupate dai coloni. La legge israeliana, infatti, prevede che passati 30 giorni dallo sfratto, gli occupanti possano rimanere in casa fino alla fine del processo.
In molti assicurano che coloro che vivo ad Herbon siano la parte più intransigente del Popolo eletto. Rendersene conto non è difficile, basta entrare in una Yeshivah. Ad accoglierti, decine di bambini dondolano il capo aventi in dietro mentre ripetono senza sosta versi del Talmut e della Torah. I bambini, sono proprio loro le vere vittime di questo odio profondo che attraverso il tempo e la storia. Come quelli arrestati e lasciati ammanettati anche per 14 ore. Gli stessi che, secondo Jessica Montell portavoce di B’tselem un’organizzazione che si occupa di diritti umani, quando faranno ritorno a casa smettono per sempre di essere tali.
Fa male al cuore vedere come le assurde ragioni dei grandi abbiamo cancellato, per sempre, il diritto all’infanzia dei loro figli. Le giornate passate tirando calci ad un pallone, le risa e la lezioni scolastiche sono state bandite. Nella Terra del male si cresce in fretta, imparando fin da piccoli ad odiare l’altro disprezzandone le comune origini.
Mattia Bagnato