I pannolini sporchi si lavano in famiglia, alcune note sul “Fertility Day”

Alla fine è successo, questo 22 di settembre è arrivato e il “Fertility Day” con lui.
Ve ne siete probabilmente ricordati ieri, quando avete visto girare sui social la nuova pubblicità regresso del Ministero della salute:

14441072_1090185121066145_7357121682644255465_nOltre a colorarsi di un’agghiacciante tinta seppia, la nuova immagine si è colorata anche di fosche tinte razziste: “Le buone abitudini da promuovere” sono quelle di sorridenti coppie, bianche ed eterosessuali, mentre “I cattivi ‘compagni’ da abbandonare” sarebbero ragazzi dalla pelle nera, che fumano. Rimaniamo in attesa dei dati relativi al nesso tra colore della pelle e infertilità.
Già la prima era piaciuta a pochi, quasi a nessuno. A fine agosto, appena è stata diffusa la foto di una donna con in mano una clessidra, sovrastata dallo slogan “La bellezza non ha età. La fertilità sì”, le polemiche si erano ferocemente scatenate sul web. A ragion veduta, s’intende. Di quella serie di cartoline rimangono oggi solo gli screenshot: dopo aver lanciato il sasso, ed essersi accorta di aver – malauguratamente – colpito in testa decine di migliaia di donne, la ministra Lorenzin ha tirato indietro la mano:

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Insomma, è il caso di dire: sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Chissà, magari provoca pure infertilità.

Il “Piano nazionale per la fertilità”

Tornando al tweet, in effetti il “Fertility Day” non si riduce a due cartoline e un hashtag. L’istituzione di questa giornata costituisce il quinto punto del “Piano nazionale per la fertilità”, 137 pagine pubblicate a maggio dell’anno scorso dal Ministero della salute. Il testo la definisce “giornata nazionale di informazione e formazione sulla fertilità, dove la parola d’ordine sarà scoprire il prestigio della maternità”. L’assonanza tra prestigio e presagio è puramente casuale.
Proseguendo nella lettura, ci si renderà facilmente conto di come questa buffonata rappresenti solo la punta dell’iceberg. È preoccupante quindi il fatto che buona parte degli haters abbiano scaricato fiumi di rabbia per qualche foto, senza andare a fondo e verificare cosa prevedesse effettivamente il “Piano”. A parte difendere la fertilità e preparare una culla per il futuro (immagine che mi riporta involontariamente a uno scenario alla Benjamin Button), gli obiettivi del piano sono:

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Il tutto si traduce in: informare le donne sui rischi dell’età associati alla fertilità, educare il bambino alla sessualità per preservare la fertilità, prevenire comportamenti sessuali irresponsabili e con essi la trasmissione di malattie che mettano a repentaglio la fertilità, così come alcuni disturbi tempestivamente diagnosticabili. Nel caso in cui non aveste capito: fertilità, fertilità, fertilità.
Ma la domanda è: perché tutta questa preoccupazione?
Secondo le stime fornite dal Ministero, in Italia nascono 1,39 figli per donna, rendendoci così uno dei Paesi europei con il più basso livello di nascite. Le donne partoriscono sempre più tardi e, avvicinandosi al limite biologico per la procreazione, rischiano di doversi fermare al primo bebè. Di questo passo, si stima che nel 2050 “la popolazione inattiva sarà in misura pari all’84% di quella attiva”.

Puntate la sveglia nel vostro “orologio biologico”, che poi arrivate tardi

Ma andiamo in ordine. Su 137 pagine, gli accenni alle responsabilità maschili nelle dinamiche riproduttive si contano sulle dita di una mano. Anzi, è detto chiaro e tondo che “l’età femminile governa la fertilità”. Quindi tutto è nelle mani della donna, tic tac. È qui che ritorna l’immagine di quella clessidra, che richiama il più lontano concetto di “orologio biologico”. Un interessante reportage di Moira Weigel, pubblicato sul numero 1170 di Internazionale (9/15 settembre 2016), spiega da dove sia originato questo mito angosciante. Era il 16 marzo 1978, quando il giornalista Richard Cohen scriveva sul Washington Post: “Per la donna in carriera le lancette dell’orologio corrono”. Nei vent’anni precedenti, il tasso di natalità era drasticamente crollato negli USA, da una media di 3,5 figli a donna nel 1957 si era passati a soli 1,5 nel 1976. Non troppo distante dall’attuale media nostrana. “Colpevoli” di questo calo furono due fattori: la stagnazione dei salari degli anni Settanta, per cui sempre meno famiglie potevano permettersi di andare avanti con un solo stipendio, e il desiderio di liberazione delle donne inneggiato dalle femministe bianche istruite. Quella dell’orologio biologico fu una campagna che doveva riportare in carreggiata la cosiddetta donna emancipata: il professato determinismo biologico le avrebbe impedito di allontanarsi dall’unico ruolo che la società poteva riconoscerle, quello di madre. Rafforzando gli stereotipi sulle differenze di genere, l’alternativa era quindi: maternità o fallimento. Perché la donna, se non è madre, non può realizzarsi.

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Facendo riferimento a un articolo del 2013 pubblicato su “The Atlantic” dalla psicologa Jean Twenge, la Weigel fornisce alcuni dati relativi alla fertilità femminile: “La statistica spesso citata secondo la quale una donna tra i 35 e i 39 anni su tre non riesce a rimanere incinta anche dopo averci provato per un anno nasce da uno studio del 2004 basato su registri delle nascite francesi dal 1670 al 1830”. Molto prima della scoperta dell’elettricità e degli antibiotici. Fermo restando che – come afferma la stessa Weigel – le prove scientifiche del fatto che la quantità e la qualità degli ovuli diminuiscono con l’età sono accertate e che chiaramente non ci sia nulla di male ad avere un figlio da giovani, sull’età limite per il concepimento non c’è nulla di certo. Questo finché non sopraggiunge la menopausa, logicamente.

I pannolini sporchi si lavano in famiglia: politica o potere?

Ma passiamo dai problemi biologici a quelli politici e sociali. A leggere la campagna della ministra Lorenzin, sembra che lo stato di cose non sia cambiato così tanto dagli anni Settanta. Invece che chiamare in causa la scienza per accusare le donne che non vogliono essere madri di mettere in crisi il sistema di welfare, diamo la colpa ai veri responsabili: le politiche di austerity. In un Paese dove, alla data stabilita per la presentazione del Piano di sostegno alla famiglia, il ministro Enrico Costa ne parla ma non presenta nessun documento (ad oggi non è ancora consultabile), come si può incentivare una donna alla procreazione? Il bonus bebè di 80 euro al mese per ciascun figlio sfiora i limiti del ridicolo. Forse i ministri dovrebbero essere aggiornati sul costo di un pacco di pannolini:

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Dall’altro lato, l’identità individuale unidimensionale della lavoratrice, che non può rimanere incinta se non vuole perdere il posto di lavoro, segue la rotta del capitalismo e del sessismo che la accompagnano. Sempre che questo lavoro si trovi. Sia per scegliere semplicemente la famiglia, che per scegliere il lavoro combinato alla famiglia, ci vogliono organizzazione e fortuna. È importante quindi mettersi subito alla ricerca del principe azzurro, perché ogni relazione finita male è stata una “perdita di tempo”.
Un attimo: e il piacere del sesso? Certo, “l’imperativo ‘Godi!’ è onnipresente, ma il piacere e la felicità ne sono quasi del tutto assenti”, spiega Nina Power in La donna a una dimensione. Di fronte alla sessualizzazione imperante, il sesso accettato rimane quello borghese, che si fa di nascosto, sotto una coperta di moralismi e ipocrisie. Alle donne è richiesto dunque di adottare comportamenti sessualmente idonei per non mettere a repentaglio la propria fertilità: e il diritto alla vita e all’autodeterminazione? Non verrebbe prima di tutto? Finché un’educazione sessuale adeguata non diverrà obbligatoria nelle scuole e il 70% del personale medico continuerà a rifiutarsi di praticare interruzioni volontarie di gravidanza con la scusa dell’obiezione di coscienza, non si può chiedere alle donne di pensare prima alla propria ipotetica prole che a se stesse. Non si parli poi delle alternative a una concezione di famiglia basata sul modello etero-normato, che pare male.

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Ancora una volta, la donna rimane dentro al contratto sessuale ma tagliata fuori da quello sociale. L’offerta della moderna emancipazione femminile, quella di essere alla pari degli uomini, nasconde il solito principio di subordinazione: siete uguali, ma un po’ meno uguali. Mi chiedo, prendendo in prestito le parole di Luisa Muraro: in questa politica della maternità, si esplica una dinamica politica o di potere? Dove il confine tra potere e violenza non è affatto così netto. E dove “politica è guadagnare esistenza libera e benessere condivisi, sottraendoci, donne e uomini, con astuzia e ingegno, in caso combattendo, allo schiacciamento dei rapporti di forza”. Non è esagerato ritenere questa campagna una forma di violenza, che passa silenziosamente attraverso l’autorità dello Stato, non dissimile da quella stessa che l’uomo esercita sul corpo della donna, sia fisicamente che socialmente.

Per tutte le donne incazzate, e non semplicemente indignate, l’invito è quello a scendere nelle numerose piazze italiane dove si protesterà al grido di “FERTILITY FAKE”.

Roberta Cristofori

@billybobatorton

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