Postcard from AMA Music Festival

Sono andata all’AMA Music Festival di Asolo (TV) e questo è ciò che ho visto, o meglio è ciò che avrei visto se ci fossi andata davvero. Questo non è un live report tradizionale perché chi scrive aveva una gran curiosità addosso per questa serie di concerti  e una gran voglia di fare balotta insieme alle Altre di B, e invece nulla. Le cose sono andate in un altro modo e alla fine è rimasta a piedi. E pure senza corrente elettrica.

Ripristinata la corrente (no, non vivo in un PVS, ma in FVG), non mi è rimasta alternativa a chiamare, scrivere, cucire e raccogliere impressioni da chi ci è andato davvero, che fosse musicista o pubblico, per ricostruire quello che mi sono persa (e mangiarmi le mani ancora un po’). Cosa non si fa per dedizione.

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Partiamo da lontano, da quel 2015 in cui un gruppo di ragazzi in gamba ha deciso di allestire un Festival. E non è facile, in Italia, organizzare una rassegna capace di coinvolgere artisti di livello e raggiungere un pubblico sufficientemente vasto, soprattutto se tra i tuoi obiettivi c’è anche la valorizzazione del patrimonio storico e culturale della tua terra natale e la tua terra natale si trova lontano dai grandi centri. Se l’Italia è terra di campanili e campanilismi, è proprio la Provincia l’arena della contesa tra accenti differenti dello stesso dialetto e sfumature alcolico-culinarie che rendono la vita quotidiana di sicuro più animata. In un certo senso, il Veneto è paradigma di come la provincia possa trasformarsi da limite a valore aggiunto. Nel vicentino, nel padovano, nel trevigiano, nel bellunese (ma non solo), ogni paese ha la sua sagra e ogni sagra ha il suo animato gruppo di giovani che investe ogni istante di tempo libero dal lavoro “vero” per scovare un gruppo interessante, una voce nuova da inserire nel programma tra una degustazione di fagioli di Lamon e una gara di Amarone della Valpolicella. Il risultato è che proprio grazie ai festival locali, luoghi generalmente etichettati come mortalmente noiosi scoprono risorse impensabili, e la socialità nel suo complesso ne trae linfa vitale. Una lezione che, lentamente, è stata appresa e si diffonde anche altrove (in Emilia Romagna c’è, tra gli altri, il Rock Marconi, in Friuli Venezia Giulia sono riusciti a portare un gruppo di giovani a ballare sul palco insieme Cosmo a Blessanoguardare per credere). Cultura musicale è (anche) questo guazzabuglio di ottimo vino, cuore e passione per la musica.

Non deve stupire, quindi, che proprio da questo tipo di esperienze abbia tratto le sue radici un festival capace di richiamare in un borgo medievale grandi nomi dell’indie – uno su tutti: i FOALS – e nomi di tendenza della scena indipendente italiana – Calcutta vi dice qualcosa? La line up dei sei giorni di festival ha l’ambizione di riunire sotto lo stesso cielo gruppi e realtà decisamente eterogenee. Apparentemente ci si chiede quale sia l’anello di congiunzione tra il cantautorato di Edoardo Bennato e l’elettronica di Steve Aoki, tra il violino del siriano Alaa Arsheed e i Tre allegri ragazzi morti, icone della scena indipendente del Belpaese. Tuttavia, a ben guardare, ciascuna serata è risultata organica e ben bilanciata tra nomi di grido e giovani arrembanti: la ricetta giusta per attirare l’attenzione di un pubblico altrettanto eterogeneo. God saves “sbarbine miagolanti” per l’idolo di turno – vedi di nuovo alla voce Calcutta o Motta, ma la coccarda di merito della redazione va alle famiglie, nanerottoli al seguito, che si sono viste i FOALS con grande goduria.

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Essendo il festival ad Asolo, gioiellino delle prealpi venete, uno si aspetterebbe un allestimento relativamente piccolo nel centro di quel borghetto delizioso, magari nel cortile del castello proprio come accade nella non lontana Sesto al Reghena oppure a Castelbuono. Invece la location è un campo ai piedi del colle di Asolo, denominato per l’occasione Asolo City Park, tendenzialmente fangoso e aromatizzato al concime, con un’area centrale occupata da tavoloni da sagra, ai lati banchetti di vario genere e da una parte e dall’altra i due palchi, il Circus, più piccolo, sotto un tendone e il main stage, alto e magnifico. Tra il rustico e l’international come solo la provincia sa essere, il modello di riferimento è il Glastonbury e, più in generale, i grandi festival del centro-nord Europa. Street food con tanto di un intero stand dedicato al cibo veg (grande assente in altri festival italiani), prodotti handmade locali e non, ampia scelta di birre artigianali hanno completato il quadro e lasciato soddisfatti gli spettatori. Ancor più soddisfatti per i prezzi, decisamente accessibili, delle singole serate. Non capita spesso – purtroppo – di poter assistere a un live con 2, 5, 15 Euro. Se il target di riferimento è il venti-trentenne che ci andrebbe pure molto volentieri e molto spesso ai concerti, ma tra lavoretti, università e stage mal retribuiti è costretto a tirare la cinghia, allora la scelta è più che azzeccata. Inoltre, come osserva Sophia, i festival così accessibili ti incoraggiano a scoprire realtà musicali nuove in un contesto dove sei sicuro di ascoltare della buona musica. Non sono poche le persone che agli headliner, a conti fatti, hanno preferito i gruppi di supporto e non certo per demerito di Kula Shaker o Vitalic. 

A questo punto la domanda è una sola: quanto manca alla prossima edizione?

 

Angela Caporale con la collaborazione di Giovanni Ruggeri

@puntoevirgola_

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