Ho la più alta stima di Filippo Batisti, soprattutto perché è quasi due metri. Così, quando mi ha proposto di scrivere una recensione su Francesco Motta e su La fine dei vent’anni, mi sono apprestata di buona lena a formarmi un’opinione. Eccola.
C’ è una ferocia disarmante nel modo in cui Francesco Motta, troppo pisano per non ricordare Appino e troppo avvenente per ricordare Calcutta, canta la concretezza del passaggio di consegne da fanciulli soavi a uomini duri e puri.
Percussioni veloci, pianoforte delicato qua e là, arrangiamenti degni di nota e una voce che non definiresti “bella” immediatamente, ma che ti accarezza nodi segreti e si sa tuffare nei piccoli traumi. A lui, in studio, si aggiungono alcuni dei migliori musicisti su cui una produzione possa contare: Cesare Petulicchio (Bud Spencer Blues Explosion), Andrea Ruggiero (Operaja Criminale e mille altri), Laura Arzilli, Lello Arzilli, Andrea Pesce, una leggenda come Giorgio Canali, Maurizio Loffredo, Guglielmo Ridolfo Gagliano (Paolo Benvegnù, Negrita) e Alessandro Alosi (Pan del diavolo). Francesco Motta è assolutamente versatile, un polistrumentista che sfiora le asperità del rock, ma che rimane orecchiabile, poppeggiante, un po’ da latte alla ginocchia, ma in modo carino.
La fine dei vent’anni parla, in soldoni, di quel momento semi-tragico in cui ti rendi conto che “panta rei” non è uno slogan per vendere più leggins, che non tutto si può riparare, che le crepe restano e a volte fanno pure un male cane e soprattutto che non puoi più tornare a casa ubriaco tutte le sere ed essere fresco come una rosa la mattina dopo. È il canto generazionale di noi poveri stronzi senza futuro, è il manifesto della dicotomia tardo-adolescenza/sconforto condito con incoraggiamenti caldi e mattoncini rosa come “Amico mio sono anni che ti dico andiamo via / ma abbiamo sempre qualcuno da salvare”.
Motta descrive cotte malinconiche, incertezze perenni e batoste sentimentali più cervellotiche che fisiche, anche se la sapiosessualità è reale quanto la possibilità di andare in pensione. Cronicamente scontenti e gioiosamente furiosi, noi ultra-ventenni e poco-più-che-trentenni sospettiamo che ci sia qualcosa di più del mondo scarno e crudele che abbiamo ereditato e, soprattutto, vogliamo dei soldi. (Aspettando il socialismo, s’intende.)
C’è una prospettiva artistica che non definirei nuova ma che è comunque meglio di niente e che comunque non mi dispiace: il desiderio di edificare, di costruire insieme, di liberare spazi ed essere collettività in musica. Nel frattempo lacrimucce, vasti tappeti di suoni, scenari semi-cantieristici di fango, tentativi di passare oltre (“Non ridere non piangere / non stringermi le mani / siamo sporchi e siamo umani / e prima o poi ci passerà”) e l’equivalente social-democratico di una catena di montaggio di cuori infranti. Nessuno riesce mai a divertirsi, ma speriamo che in futuro la droga costi poco.
Sono, insomma, quelle situazioni lacrimose in cui l’amore è struggente, straziante, tardoadolescenziale e più amaro che dolce. È una martellata negli zebedei.
Tuttavia, le parole sono bellissime. Il disco si ascolta come un diario, e ogni canzone ha l’effetto abbacinante ed esplosivo di farti rimuginare sulla tua, di vita sentimentale. Non che sia un grande merito, a questo punto, cogliere nel segno, visto che è più probabile stare comodi con le scarpe al contrario che avere una vita amorosa appagante e serena, ma comunque bravo Motta, apprezzo il tentativo. Sette più.
Potrei addirittura essere poetica e riassumere la fine dei vent’anni con “Non si può morire dentro. Vai a morire un po’ più in là”, ma Guzzanti potrebbe tirarmi una testata e il mio naso mi piace troppo per sfregiarmelo per Francesco Motta, che, da parte sua, non si è mai sfregiato niente per me.
Sofia Torre
3 pensieri su “Prima o poi ci (s)passerà – “La fine dei vent’anni” di Motta”