Un amico qualche anno fa mi disse: «Ascoltami: prima o poi, se continuiamo così, salterà fuori qualcuno con un estintore tatuato sul braccio. Anche piccolo. Ma stiamo parlando di un estintore… un estintore!». Poi lo vidi per davvero. Un tizio in canotta, spalle scoperte; lì il suddetto estintore, pronto a far fuoco su chi si fosse avvicinato troppo.
A volte sono sufficienti due endecasillabi messi bene in forma per solleticare il proprio vissuto. Avvenimenti che hanno segnato più di altri la visione collettiva e sociale di una determinata generazione, come quella cui appartiene chi scrive. “Tu che straparli di Carlo Giuliani, conosci l’orrore di Piazza Alimonda?”, è il titolo di un articolo del collettivo Wu Ming in ricordo dell’uccisione del ragazzo a Genova, il 20 luglio 2001, in occasione delle proteste contro il G8. Tra le altre cose, nell’articolo si segnala la visione del documentario La trappola. Non è nostra intenzione ripetervi i tristemente noti compendi sulla vicenda e sulla cronaca giudiziaria che ne è seguita, fino all’assoluzione del carabiniere Mario Placanica per legittima difesa nel 2003 (per un onesto riepilogo ci sbilanciamo, consigliandovi la visione del documentario di Mamma Rai condotto da Carlo Lucarelli). Il documentario La trappola, è diretto da Bruno Luverà (giornalista presente in quei giorni a Genova) e prodotto dal “Comitato Piazza Carlo Giuliani”: una ricostruzione dei fatti di Genova basata sull’utilizzo dei materiali processuali (audio, video, immagini e testimonianze) e materiali dell’archivio Rai per restituire la verità sulla morte del ragazzo.

Quello che risalta è la crudeltà delle immagini. Le violenze gratuite dei reparti di Polizia e Carabinieri spiccano ancora di più se riprese da telecamere amatoriali. Oltretutto, gli audio delle registrazioni telefoniche (archiviate nei processi del Tribunale) contribuiscono a creare un’atmosfera di disagio nello spettatore, poiché aprono una porta su ciò che si cela dietro la mera rappresentazione trasmessa dall’informazione mainstream di quella giornata. Operazioni condotte a danno dei manifestanti e a difesa dell’ordine pubblico? L’intento è capire di che tipo di ordine pubblico si è trattato e se è possibile parlare ancora di “ordine pubblico”. Si succedono immagini che rievocano il tristemente noto fantasma di Cossiga («Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri» – Intervista di Andrea Cangini per il Quotidiano Nazionale, 23 ottobre 2008). Ma ancora manganellate gratuite delle forze dell’ordine, dello stravolgimento di parte della città da parte di alcuni manifestanti non meglio identificati come Black Bloc (chi erano?), ecc. Il punto forte del documentario è sicuramente la ricostruzione degli attimi precedenti alla morte di Carlo Giuliani (tra le altre, ci si chiede se fu effettivamente un colpo di Placanica a ucciderlo, tramite il paragone tra diverse foto) e le conseguenti falle nel sistema giudiziario che ha poi ricostruito la vicenda decretando, di fatto, una verità lontana dal reale svolgimento dei fatti. Il resto lo lasciamo giudicare a voi stessi.

Un altro documentario fortemente consigliato è Il mio paese se ne frega (inchiesta sul G8 di Genova 2001); pur essendo di difficile reperibilità (sono stati recentemente rimossi i link su Youtube), consigliamo di farvi un giro per scovarlo. Qui si pone l’accento sugli atti di violenza e abuso di potere che vennero definiti, da Amnesty International, come la più importante sospensione dei diritti umani in un Paese occidentale dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il tutto potrebbe essere facilmente inserito all’interno del dibattito che negli ultimi giorni c’è stato sul “reato di tortura”, riguardo l’approvazione del ddl n. 849, rinviato per il riesame. È bene ricordare che la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia, lo scorso anno, per l’operato delle forze dell’ordine nell’irruzione alla scuola Diaz (“finalità punitive” e “rappresaglia, per provare l’umiliazione e la sofferenza fisica e morale delle vittime”), sollecitando il nostro Governo ad adoperarsi per una legislazione adeguata.
Tutto ciò mette in luce un aspetto importante, che riguarda la memoria dei fatti storici e la necessità di perpetuarne il ricordo nelle generazioni successive. Operazioni di revisionismo condotte al grido di «la storia la fa chi la racconta» appartengono ancora a una forma d’informazione che si possa dire veritiera? La revisione dei fatti storici è (o dovrebbe essere) basata sull’acquisizione delle fonti – ufficiali e non – e sulla ricerca della verità, attraverso l’analisi dei canali ufficiali fino ai semplici aneddoti di coloro che hanno partecipato agli eventi. Come far convivere la ricerca della verità con la necessità di parteggiare? Il “prendere posizione” è stato messo in crisi dal pigro atteggiamento bipartisan moderno, molto più pericoloso di una semplice sospensione del giudizio; questo ha causato il fatto che la parola “partigiano” e il conseguente “parteggiare” siano vissuti come sinonimi di estremismo. Nulla di più eticamente controproducente nell’atteggiamento con cui si fa informazione e si conducono le inchieste.
15 anni dopo la morte di Carlo Giuliani, il rimpianto più grande rimane il quasi totale scollamento tra la verità giudiziaria e la verità dei fatti. Insieme agli estintori tatuati sui corpi, il processo di ricostruzione storica continua ancora oggi.
Un pensiero su “Carlo Giuliani, la ricostruzione storica non si ferma”