L’Italia non è un paese per festival, e questo forse si sapeva già, ma avrei voluto ricredermi.
E invce no.
Dal 2008 ad oggi ho infatti vissuto varie esperienze quantomeno singolari: concerti nel parcheggio della fiera di Rho a Luglio con 40°C e niente ombra, Pitbull prima dei Red Hot Chili Peppers, fontane bloccate all’HJF di Mestre per obbligare la gente a comprare acqua e altre amenità. Tuttavia, mancando da grossi eventi italiani ormai da qualche anno e avendo vissuto ottime esperienze in Festival esteri e in eventi di più ridotte dimensioni, ed essendomi trovato di fronte a un’organizzazione sempre migliore e più attenta, sono partito fiducioso alla volta di Monza per l’I-Days festival.
E poi suonavano i Sigur Rós.
Questo festival, dove l’I dovrebbe stare per Indipendent, è durato tre giorni ed è ormai giunto alla 12° edizione e alla sua terza location: la line up dettagliata della giornata la trovate qui, io sostanzialmente ho visto solo – per miei difetti organizzativi – i Sigur Rós (che sono belli, bravi e buoni e bis ma questo già tutti lo sappiamo e non lo sto a ripetere) e gli Stereophonics che come apertura agli islandesi ci stavano come il ketchup sugli spaghetti ma comunque impeccabili sotto il profilo dell’esibizione, del tiro e del coinvolgimento del pubblico. Credo che fare una recensione su questi due gruppi sia piuttosto inutile, aggiungerebbe solo ripetizioni a ciò che di buono fanno i primi e sottolineerebbe ulteriormente il piattume compositivo ed esecutivo dei secondi, penso che un modesto ragionamento sul contesto potrebbe essere molto più interessante.
In questa prima parte d’estate ho avuto la fortuna di partecipare a tre manifestazioni definite dagli organizzatori stessi come festival: la piccola chicca dell’Handmade Festival di Guastalla (RE), ormai evento simbolo dell’estate alternative italiana, il MI AMI a Milano e, come detto, il più istituzionale I-Days.
In quest’ultimo, e solo in questo, mi sono sentito più un pollo da spennare che uno spettatore. Zero raccolta differenziata, zero scelta di cibo (solo panini di UN fornitore per tutto il festival e niente scelta vegetariana, visto che di vegetariani a vedere i Sigur Rós ce ne erano pochi), fontanelle d’acqua assenti benché pubblicizzate dal sito e bottigliette alla modica cifra di Euro 3. Poi. Mercatino tematico promesso e pure questo assente, la regola del ‘se esci non puoi rientrare’, pavimento assente sotto una tensostruttura (con conseguente effetto di camera a gas causa polvere e umidità) e tante belle situazioni tipicamente anni 2000 che credevo fossero state travolte dall’avvento di un’audience più informata e con più possibilità di spostamento tra le varie possibilità offerte dal panorama live, magari passando le Alpi. Ma non necessariamente.

Appunto, la tanto declamata esterofilia dei giovani, o italofobia (leggasi spocchia, visto che tante volte di questo si tratta), deve a mio parere essere frenata. Sicuramente visitando festival e concerti in giro per l’Europa, leggendo report di amici e informandomi in generale, vedo una spinta ‘dal basso verso l’altro’ (guarda te come siamo avanti…) sempre più potente nel mondo culturale, che i grossi dinosauri dell’intrattenimento italiano paiono non aver colto. Tuttavia questa spinta, in Italia, c’è eccome, anche se in maniera diversa, rimanendo più marginale ai grandi eventi.
Volontariato, crowdfunding e mercatini/stand gastronomici a Km0 sono ormai le colonne portanti di tantissime realtà, dallo Sziget Festival, al Pukkelpop in Olanda fino al nostro Vasto Siren Festival in Abruzzo. A questo va aggiunto anche che i Festival stanno cercando di diventare definitivamente qualcosa di completamente diverso da semplici grossi concerti. Moltissimi di questi, ad esempio, sono diventati delle manifestazioni culturali ed artistiche a tutto tondo, come lo è da 40 anni il Glastonbury, tanto da offrire Teatro, Circo contemporaneo e Danza, fino all’aspirazione del totale straniamento e di opera vivente cercata dal Boomtown Fair; altri ancora hanno cercato di esasperare la percezione della location, sia questa legata ad un luogo naturalmente evocativo, Outlook, o ad uno immaginario e creato ad hoc, Tomorrowland. In sostanza si sta cercando di virare verso l’unicità, in modo da distinguersi, almeno in un tratto, da tutti gli altri eventi. Il festival stesso diventa possibilità espressiva.
È questo forse il punto dove i grandi festival peccano maggiormente, la mancanza di una propria personalità. Le vicende che portano a questa situazione sono molteplici, dai cambi continui di location di alcuni (ad esempio avrei voluto linkare il sito ma non esiste, Welcome in 1995) alla completa mancanza di senso di happening di altri, con programmi spalmati su diverse settimane, se non mesi, come a mettere semplicemente un cappello unitario a una programmazione che potrebbe vivere autonomamente sotto forma di date singole. E, soprattutto, non è concepita artisticamente per stare assieme.

In sostanza, a fronte di una comunque vibrante scena indipendente e ‘di base’, in Italia i vecchi e macchinosi player nati negli scorsi decenni, strenui difensori dello status quo, si oppongono con tutte le loro forze a un cambio generazionale e di vedute del proprio business. O forse non sono in grado di immaginarlo ed eseguirlo, ma questo sarebbe ancora più grave e mi metterebbe molta tristezza pensarlo.
L’I-Days, visto che questo doveva essere un report, è stato in sostanza un ottimo concerto dei Sigur Rós, anche sotto il profilo tecnico/acustico, ne va dato atto, ma nulla più. Si spera quindi che questa sia più una partenza che un punto di arrivo, per questo festival, perché la line up era buona, la location potenzialmente ottima e la risposta del pubblico abbondante. Si spera per il futuro.
PS. Nota polemica: ma davvero gli organizzatori, vendendo i biglietti combinati per i 3 giorni, pensano che sia possibile campare con acqua a 3 euro e solo panini alla salsiccia, con 40°C, per tutta la durata del Festival?
PPS: Per tutto il resto c’è Guca.
3 pensieri su “Sigur Rós a Monza: un concerto fantastico e poco più”