I cittadini britannici si sono espressi, la maggior parte di loro ha votato a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. L’opzione “Leave” ha vinto con il 51,9% dei voti, contro il 48,1% del “Remain”. Cosa accadrà adesso? Quali saranno le conseguenze per un’Europa che si sveglia più fragile? Ne parliamo, a caldo, con Edoardo Bressanelli, professore di Scienza Politica del King’s College di Londra.
Buongiorno Edoardo, come stai?
Bene dai è stata una lunga notte. Sono andato a letto alle 4 quando ho capito che avrebbe vinto il “Leave”. Stamattina mi sono svegliato alle 8 poiché avevo una serie di interviste.
È il tuo momento, paradossalmente.
Ne avrei fatto volentieri a meno, anche perché il mio momento di oggi non corrisponde al mio momento di domani, quando dovremo pensare agli studenti, agli Erasmus, ai finanziamenti. Da domani iniziano i problemi.
Onestamente quanto sei sorpreso? I sondaggi sono sempre stati in bilico ma nessuno ha mai creduto che potesse davvero succedere.

I sondaggi non ci hanno creduto fino all’ultimo, uscito alle 22 di ieri sera ad urne chiuse, che dava in vantaggio il campo del “Remain”. Ma, soprattutto, non l’avevano previsto gli investitori. Fino a mezzanotte i mercati segnalavano che la sterlina si stava apprezzando. C’era grande fiducia. D’altra parte però noi che siamo politologi potevamo anche aspettarcelo, dato che anche questo risultato conferma quello che è un trend europeo: la rivolta contro le élite e il fatto che i partiti hanno perso il controllo del territorio. Quest’ultima tendenza si evince confrontando le mappe di voto con quelle delle elezioni del 2015. Tutta la cintura industriale dell’Inghilterra, come il Nord e le Midlands, ma anche Birmingham, roccaforti del Labour, hanno votato “Leave” nonostante il leader Jeremy Corbyn e due ex primi ministri laburisti come Tony Blair e Gordon Brown abbiano fatto campagna per il “Remain”.
Si diceva che la grande affluenza avrebbe aiutato il “Remain”. Alla fine l’alta affluenza c’è stata con ben il 72% dei britannici che si sono recati alle urne, una percentuale maggiore delle ultime cinque elezioni generali. Ma non ha scongiurato la Brexit. Come te lo spieghi?
La mia impressione è che non sia stata alta in maniera omogenea. In Scozia, dove il “Remain” ha vinto con il 62%, per esempio, la partecipazione è stata attorno al 65%, quindi più basa di 6-7 punti percentuali rispetto all’affluenza nel Nord dell’Inghilterra e 20 punti più bassa rispetto all’affluenza del referendum scozzese. Il “Remain” per vincere aveva bisogno di un’affluenza massiccia dove era più forte. Il fatto che nei luoghi più europeisti l’affluenza sia stata inferiore rispetto ai luoghi più euroscettici ha chiaramente influenzato il risultato.
A proposito di Scozia. L’ex primo ministro scozzese Alex Salmond ha prefigurato un nuovo referendum per l’indipendenza entro due anni. Anche in Irlanda del Nord ha prevalso il “Remain” e il vice primo ministro Martin McGuinness ha ipotizzato un’annessione al resto dell’isola per stare in Europa. Stiamo assistendo ad una disgregazione del Regno Unito?
La geografia elettorale è di una chiarezza straordinaria. C’è la Scozia per il “Remain” con il 62% come detto, l’Irlanda del Nord con il 56%. Il Galles non c’entra perché è stata una riproduzione in scala minore del dato nazionale. E poi l’Inghilterra, con l’eccezione di Londra e del South East, che ha votato per andarsene dall’Europa. La geografia elettorale conferma ancora una volta queste divisioni all’interno della Gran Bretagna.

Però si è verificata una spaccatura anche dal punto di vista generazionale tra giovani che hanno scelto in larga maggioranza il “Remain” (64% tra gli under 24) e anziani che hanno optato per il “Leave” (58% tra gli over 65). C’è un rischio di tensioni sociali in Regno Unito?
Ci sono spaccature di ogni tipo. Possiamo aggiungere anche quella dovuta all’istruzione e al titolo di studio. Quella generazionale in effetti è forse la più preoccupante. Anche perché tra i giovani ci sono anche molti immigrati europei, anche se non hanno potuto votare. Un paese spaccato come una mela: Scozia contro Inghilterra, giovani contro anziani, popolo contro élite… Io non so come la politica possa ricomporre tutte queste fratture.

Di sicuro a farlo non sarà il primo ministro David Cameron che ha annunciato le sue dimissioni in ottobre. Quali altri sviluppi ci dobbiamo aspettare nella politica britannica?
Sì, ci sarà una competizione per la guida del partito conservatore e personalmente penso che succederà qualcosa di simile anche nel Labour. Questo risultato rimette in discussione la leadership di Corbyn. E poi c’è la curiosità di vedere cosa farà da grande lo UKIP di Nigel Farage ora che ha perso la sua stessa ragione sociale in un certo senso.
Cameron aveva indetto il referendum sulla permanenza nell’Unione Europea sostanzialmente per rafforzare la propria leadership dentro e fuori il partito conservatore, e ha perso la propria scommessa. Come passerà alla storia? Quanto sarà negativa la sua legacy?
Lui stesso ha fatto ciò che stamattina era nell’ordine delle cose. Perché quando tu metti la tua leadership in discussione, sei la personalità più influente nella campagna per il “Remain”, fai una scommessa e, come nel caso della Scozia, speri che la situazione non ti scappi di mano, se poi le urne indicano un risultato di segno opposto non puoi che prenderne atto. Come definire la legacy di Cameron? Mi viene da dire, in una parola: fallimentare! Perché è ovvio che a dispetto di quello che è stato fatto a livello di politiche, a dispetto di un modello economico che aveva prodotto statistiche soddisfacenti, in particolare se confrontate con quelle dell’Europa continentale, questo referendum sancisce l’uscita dall’Unione Europea e può provocare la disgregazione del Regno Unito. Questo è l’evento per il quale verrà ricordato Cameron perché si tratta di qualcosa di epocale. Tutto il resto passa in secondo piano.
E il resto già non era eccezionale.
Cameron è stato un politico capace di vincere due elezioni ed è riuscito a spuntarla sul referendum scozzese. Anche all’inizio di questa nuova scommessa sembrava riuscire a destreggiarsi egregiamente in acque tumultuose. Aveva portato a casa la rinegoziazione con Bruxelles rapidamente. È vero, i termini erano discutibili, ma aveva in mano un pacchetto vincente, inclusa la riduzione dei benefit per gli immigrati, che poteva presentare all’elettorato. Purtroppo per Cameron, le cose sono andate male dal 20 febbraio, da quando l’ex sindaco di Londra Boris Johnson si è schierato per la Brexit. Da quel momento è cambiato tutto.
Mi viene da dire che Cameron abbia imparato poco dal referendum scozzese. Anche in quell’occasione aveva impostato la campagna cercando di terrorizzare gli elettori, spiegandogli le eventuali conseguenze dell’indipendenza e così il suo campo ha gradualmente perso consenso.
Io ho un’impressione: in aree che hanno conosciuto la post-industrializzazione come il nord dell’Inghilterra, e che hanno magari visto un flusso di immigrazione non qualificata dall’Unione Europea, lo euroscetticismo era un elemento così radicato che per Cameron sarebbe stato difficile fare una campagna positiva. Un elettorato così ideologizzato diventa irremovibile nelle sue posizioni. Poi non è stato molto aiutato da altri partiti. Pensa che nello Yorkshire, la contea di appartenenza della deputata laburista e pro-Remain Jo Cox, vittima di un terribile attentato la settimana scorsa, ha vinto la Brexit. Secondo me Cameron ha colpe politiche molto gravi a monte, ma a valle non riesco ad attribuirgli grandi responsabilità.
La fuoriuscita di un membro dalla Unione Europea è un evento storico senza precedenti, quindi è difficile prevedere cosa potrebbe succedere in pratica dal punto di vista giuridico. Puoi cercare almeno di fare delle ipotesi?
Cameron è stato chiaro sul fatto che nell’immediato non cambierà nulla. Andrà a Bruxelles e spiegherà la situazione ai partner europei. C’è da azionare l’articolo 50 dei trattati che fa partire il conto alla rovescia di due anni per i negoziati sull’uscita. Il risultato del referendum andrà confermato da un atto parlamentare. Ma si può giocare coi tempi. Per esempio facendo scattare il countdown dopo aver preparato il terreno per i negoziati. Queste sono le tempistiche, ma è immaginabile che ci siano proroghe e complicazioni. Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, aveva parlato addirittura di sette anni. Ci sono tante questioni sul tavolo e la matassa è davvero difficile da sbrogliare.
Ciò che è sicuro del progetto europeo ne esce con le ossa rotte. I principali leader del fronte euroscettico, come la francese Marine Le Pen, l’olandese Gert Wilders e il nostro Matteo Salvini, già invocano consultazioni popolari simili nei loro paesi di appartenenza. C’è il rischio di un effetto domino?
D’altra parte chi erano le facce per il “Leave”? Boris Johnson e Nigel Farage, principalmente. Ha vinto la destra dei conservatori, ha vinto un partito euroscettico di destra, sull’altra sponda della Manica certe figure non possono che guardare a questo referendum come un modello di riferimento. I primi commenti di entusiasmo per il risultato sono arrivati appunto da Le Pen e Wilders. Questa è un’indicazione forte. Però teniamo presente che i costi di uscita sono molto alti e su questo c’è il consenso del mondo economico e finanziario. Almeno il Regno Unito ha un’economia forte. Uno stato più piccolo o più fragile con un’uscita dall’Unione Europea si esporrebbe a rischi ancora maggiori.
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