Non solo Italia e Francia. Non solo Renzi e Hollande. Non solo Poletti e El Khomri. In questi giorni anche in Belgio si discute su un progetto di riforma del lavoro, condito da una piccante spruzzata di liberismo. Peccato che sia quel genere di piccante che fa lacrimare gli occhi.
Nei piani del Ministro del Lavoro Kris Peeters (membro del CD&V, i cristiani democratici fiamminghi) la riforma dovrebbe entrare in vigore prima del 2017, giusto in tempo per aprire i tavoli di negoziazione per il rinnovo dei contratti nazionali. Tuttavia, per usare un eufemismo, la società civile non si è dimostrata esattamente contenta, e il percorso verso l’approvazione sarà accidentato. La riforma è infatti percepita da gran parte dei settori professionali come l’ennesima misura di austerità del governo. Infatti giusto in questi giorni la Vallonia ha vissuto due durissimi scioperi in risposta ai tagli al bilancio e a varie politiche di “riassestamento”: dieci giorni dei ferrovieri e addirittura tre settimane delle guardie carcerarie. L’ironia della situazione sta nel fatto che la coalizione di governo, guidata dal primo ministro Charles Michel, è soprannominata “la svedese”, perché la somma dei colori e dei simboli dei partiti membri dà proprio come risultato la bandiera del paese scandinavo (se volete capire cosa ci sia di ironico, Luca Sandrini spiega qui cosa è successo in Svezia).
La grande differenza rispetto alle riforme italiana e francese, oltre al colore politico della coalizione di governo, sta nel fatto che in questo caso si interviene pesantemente sulla disciplina dell’orario di lavoro. Il nodo principale sta nella proposta di passare alla contabilizzazione delle ore di lavoro su base annuale e non più trimestrale. In mancanza di un espresso divieto delle associazioni di settore, è prevista la possibilità di passare a giornate di nove ore (e a settimane di 45) per lunghi periodi a seconda delle esigenze di produzione, fino a un massimo di 143 ore supplementari. A questi faranno seguito lunghi periodi a orario ridotto. Un esempio concreto potrebbe vedere cinque mesi di lavoro a 45 ore settimanali, seguiti da cinque mesi a 31 ore, con infine 38 ore settimanali nei restanti due mesi. Non pago, Peeters ha fatto intendere la possibilità di poter introdurre in alcuni settori limiti più alti, con giornate da 11 ore (!!) e settimane da 50.
Il secondo punto della riforma è sempre legato alle necessità produttive: al fine di garantire una migliore disponibilità nei momenti di maggiore (o minore) produzione, si vorrebbe permettere alle imprese di comunicare ai dipendenti a tempo parziale le variazioni giornaliere di orario solo 24 ore prima. Immaginate l’organizzazione della vostra vita senza un orario di lavoro stabile. Per la categoria dei part timer sarà inoltre più difficile rimpolpare il salario: tutte le ore supplementari richieste dal lavoratore non saranno conteggiate più come straordinario. Grandi porzioni della popolazione tradizionalmente facenti parte del mondo part time, come le donne, saranno dunque a rischio.

Terza proposta è la creazione di uno stock di 100 ore supplementari, ossia 12 giorni di lavoro, non recuperabili con giorni di riposo. Vale a dire che quest’ultimo può andare dal lavoratore e dire “tu quest’anno lavori 100 ore di più”, di fatto portando la settimana da 38 a 40 ore. Sta al lavoratore decidere se queste ore possono essere remunerate come straordinarie (si potrebbe parlare in tal caso di imposizione di straordinario da parte dello Stato) o messe in alternativa in un “conto carriera”. Quest’ultimo è un altro punto della riforma, ossia un conto dove il lavoratore può accumulare ore e/o remunerazione per potersi prendere delle pause della carriera o per potersi “autofinanziare” l’assegno di disoccupazione. La critica dei sindacati e della sinistra su questo punto è durissima, poiché accusano il Governo di sostituire la previdenza sociale con le ore di straordinario: chi ha la possibilità e la forza di lavorare molto avrà una rete di protezione migliore di chi magari è già in una situazione più difficile.
Ultimo punto, la proposta di creare un contratto di lavoro interinale a tempo indeterminato. Per quanto possa suonare come un ossimoro, vorrebbe dire nei fatti legare un lavoratore alla stessa agenzia interinale. La creazione di questa nuova categoria potrebbe creare un esercito di lavoratori meno costosi e sballottabili di qua e di là.
Se tre indizi fanno una prova, allora il Belgio è il tassello finale per capire la direzione che le politiche sul lavoro stanno prendendo in Europa. In effetti si tratta di un ulteriore passo in avanti: cercare non solo di avvantaggiare il capitale rispetto al lavoro, ma anche di rendere quest’ultimo più simile al primo, in termini di flessibilità e disponibilità. Il governo belga sembra essersi dimenticato che quella del lavoro è una politica pubblica: non conta solo la produttività, ma anche la salute e il tenore di vita dei propri cittadini, tenore che si calcola in denaro ma anche e soprattutto con la qualità e la quantità del tempo libero a disposizione. Il tutto senza contare che l’aumento delle ore di lavoro va contro ogni idea circa la riduzione del tasso di disoccupazione e l’aumento dei consumi, per cui nel lungo periodo una politica di questo genere può essere anche dannosa. Ma se si deve rincorrere il mercato, allora avanti così.