Quando, lo scorso agosto, la cancelliera tedesca Angela Merkel annunciò che si sarebbe appellata alla “clausola di sovranità” per sospendere il Regolamento Dublino III, aprendo di fatto le porte della Germania a migliaia di richiedenti asilo siriani, nessuno (o quasi) avrebbe immaginato che una scelta in apparenza accogliente e d’esempio si sarebbe trasformata nel primo passo verso una discriminazione di fatto tra migranti di differenti nazionalità. La scorsa estate la priorità era dare un segnale forte in opposizione alla chiusura dell’Ungheria di Orban e appena si iniziava a parlare della rotta balcanica. Il corpiccino di Aylan Kurdi non era ancora stato fotografato sulle spiagge di Bodrum, gli attentati del Bataclan e di Bruxelles esistevano, probabilmente, soltanto nella mente degli attentatori e la scelta politica della Merkel voleva (poteva?) dare avvio ad un effetto domino su scala europea per riformare e superare un sistema, quello di Dublino III, che ha dimostrato la sua inadeguatezza di fronte alla “crisi dei rifugiati” che, è sempre bene ricordarlo, è una crisi per i rifugiati e una crisi dell‘Europa.
Ma soltanto i siriani possono essere definiti rifugiati? La prima conseguenza i cui risultati sono emersi nel tempo della decisione tedesca è stata l’accettazione de facto di una distinzione tra migranti basata su un criterio di nazionalità. Eppure non tutti i migranti sono siriani, al contrario un quarto dei richiedenti asilo che hanno raggiunto l’Europa nel 2015 proviene da Iraq e Afghanistan. Siriani, afgani ed iracheni insieme raggiungono quasi la metà delle domande di asilo presentate lo scorso anno e, per la maggior parte dell’anno, hanno ricevuto un trattamento simile: l’88% degli iracheni e il 70% degli afgani otteneva la protezione internazionale. Poi, più o meno sull’onda delle reazioni politiche ed emotive degli attentati di Parigi dello scorso novembre, è cominciata un’attività di filtro: da un lato è cresciuta la percentuale di dinieghi per queste due nazionalità, dall’altro le autorità lungo la rotta balcanica hanno cominciato a fermare chi non era siriano. Si è configurata una “linea del colore”, per la quale è la nazionalità a determinare, in maniera pregiudiziale, che tipo di protezione, status e diritti avrai una volta in Europa.
Si tratta di una distinzione tra profughi di serie A (i siriani) e profughi di serie B (afgani ed iracheni) formalizzata dall’accordo tra Unione Europea e Turchia dello scorso marzo. Come illustra Alessandro Lanni su OpenMigration, “Quella che si nasconde nelle pieghe dell’accordo con la Turchia rischia di essere un’inversione a “U” nell’ambito delle scelte sull’asilo. Come è noto, lo status di rifugiato non è riconosciuto (o negato) in virtù del paese di provenienza, ma degli effettivi pericoli che una persona corre. Una singola persona. Il “respingimento” coatto di gruppi di persone in un paese terzo somiglia molto a un cambiamento di fatto dei principi della Convenzione del 1951.” Ed è proprio questo il cuore della scissione tra l’opinione comune sull’immigrazione, rafforzata dalle politiche menzionate, per cui è lecito distinguere tra rifugiati, profughi e migranti economici sulla base del paese di provenienza e la legge che descrive il diritto d’asilo come un diritto che spetta a ciascuno come individuo.
Se poi dovessimo limitarci a considerare soltanto questi tre paesi di provenienza, l’Italia risulterebbe praticamente esclusa da ogni ragionamento sociale e politico sull’argomento. Anche in questo caso i dati parlano chiaro: i migranti e rifugiati sbarcati in Italia nel 2016 provengono soprattutto da Nigeria (15%), Gambia (10%), Somalia (9%), Eritrea, Guinea e Costa d’Avorio (8%). Si tratta di paesi dove vi è una forte instabilità sociale causata da rigidi dittatori come in Eritrea, dalla presenza di gruppi terroristici come Boko Haram in Nigeria e Al-Shabaab nel Corno d’Africa, dall’impatto di siccità e altri problemi climatici che rendono alcune aree inospitali e costringono intere fette della popolazione alla fame. Non vi sono norme che impediscono ad un cittadino nigeriano o ivoriano di vedere la propria domanda d’asilo esaminata, non vi sono pregiudizi basati sulla provenienza che conducono inevitabilmente al diniego (e al ritorno di paura ed incertezza sul proprio futuro).
In questo senso, farà scuola la decisione del giudice Federico Salmeri, Tribunale di Milano, che ha concesso ad un ventiquattrenne del Gambia la protezione umanitaria. L’ordinanza, che ribalta la decisione della Commissione Territoriale, è fondata sulla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che prevede, per ciascuno, il “diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali essenziali.” La povertà, dunque, rappresenta un concreto limite alla fruizione di questo diritto, soprattutto se tale da spingere una persona ad intraprendere un viaggio lungo, pericoloso e molto costoso. “Apparirebbe infatti contraddittoria e inverosimile – obietta il giudice, come riportato su La Stampa – la scelta del ricorrente di percorrere un viaggio così tanto lungo, incerto e rischioso per la propria vita, se nel Paese di origine godesse di condizioni di vita sopra la soglia di accettabilità». Il rimpatrio? «Lo porrebbe in una situazione di estrema difficoltà economica e sociale, imponendogli condizioni di vita del tutto inadeguate, in spregio agli obblighi di solidarietà nazionale e internazionale».
É un primo passo, doveroso, che può invertire il trend cui siamo abituati, che può mettere in discussione le etichette dei profughi di serie A, B e C (quei “migranti economici” che esistono nella retorica e non nella legge), che può, a piccoli passi, decostruire una narrativa dell’immigrazione basata su suggestioni e discriminazioni.
2 pensieri su “Protezione umanitaria per povertà, basta migranti di serie B”