Il deterioramento o il rapido cambiamento delle condizioni economiche e sociali può dare il via a una cascata di eventi che provocano una crisi politica. Ma questa crisi innesca una rivoluzione contro l’ordine costituito solo quando interviene un nuovo ordine morale, e quando la presa del potere può servire ad affermare i “valori sacri” che definiscono quell’ordine.
– Scott AtranOgni stato-nazione tende all’imperialismo. Questo è il punto. Attraverso le banche, gli eserciti, le polizie segrete, la propaganda, i tribunali e le carceri, i trattati, le tasse, la legge e l’ordine, i miti dell’obbedienza civile, e soprattutto le presunte virtù civiche.
– Daniel Berrigen
LA FINE DELLA STORIA
Nel suo libro “La fine della storia e l’ultimo uomo” Francis Fukuyama descrive il fermento che seguì al crollo del Muro di Berlino e al crescente sostegno verso la democrazia liberale conseguente allo scenario politico di quegli anni – tanto da prevedere che questa sarebbe divenuta “il punto di arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità”, determinando, appunto, la fine della Storia.
Anche Marx e Hegel prevedevano una fine dell’evoluzione delle società umane nel momento in cui i “più profondi e fondamentali desideri” dell’umanità sarebbero stati soddisfatti dalla “forma definitiva di governo tra gli uomini”. Sicuramente Marx non pensava al neoliberismo, c’è da dire.
Si arriva a questo punto finale dell’evoluzione attraverso una dialettica simile per tutti gli Stati-nazione che, secondo Fukuyama, nel loro processo di modernizzazione tenderanno ad omologarsi assomigliandosi sempre di più. Questo percorso comporta la scomparsa di tribù, sette e famiglie con “altre forme economicamente razionali”.
Questo processo di modernizzazione, per l’Arabia Saudita, è stato avviato dalla scoperta di vasti giacimenti petroliferi. Ma questo paese rappresenta un caso unico perché qui – almeno apparentemente – la modernità non ha ancora soppiantato tribù, sette e famiglie.
Sempre i giacimenti al contempo differenziano e accomunano l’Arabia Saudita al resto del Medio Oriente. La accomuna perché le hanno permesso di compiere quel balzo economico di cui poi, a cascata, la stragrande maggioranza dei suoi cittadini hanno goduto. Ma a tale sviluppo non hanno fatto seguito anche uno sviluppo sociale e uno liberal-democratico, e questo è il principale elemento di somiglianza col resto dei paesi islamici che condividono con Ryad l’asset petrolifero (ne sono validi esempi la Libia, l’Algeria o l’Iran).

LOTTE PER IL RICONOSCIMENTO
Nel suo libro Why Nations fight R. N. Lebow scrive che la paura, la tutela degli interessi e la difesa dell’onore sono le cause principali di qualsiasi guerra. Ciò rispecchia fedelmente la struttura della dialettica servo-padrone di Hegel, secondo cui ogni lotta è una lotta per il riconoscimento di se stessi da parte dell’avversario. Proprio per questo motivo, l’obiettivo della lotta non è la distruzione, bensì la sottomissione dell’antagonista, con tutto il prestigio che ne deriva.
Questo discorso, però, non vale solo nei rapporti fra Stati, ma anche per le fasce sociali e i singoli cittadini: Fukuyama sostiene che, raggiunto un certo livello di istruzione e di uguaglianza, le persone cominciano a chiedere “non solo più ricchezza ma anche il riconoscimento del proprio status”.
Nel caso saudita abbiamo due livelli di riconoscimento ben distinti: nel primo è lo Stato che vuole essere riconosciuto dal sistema internazionale; nel secondo invece è il cittadino che vuole essere riconosciuto dallo Stato a cui appartiene.
Non a caso tutte le politiche che l’Arabia Saudita porta convintamente avanti negli ultimi tempi sembrano rifarsi proprio a questa tesi. È in questo modo che si giunge a un nuovo ciclo, che segue lo sviluppo economico e la stabilità politica internazionale dei primi anni ’90, anni che avevano reso superati gli ingrandimenti territoriali e dove la guerra sembrava economicamente irrazionale. Oggi invece le azioni militari dei Saud parrebbero avere un duplice obbiettivo, interno ed esterno: mandare un avvertimento agli altri giocatori della regione (l’Iran in primis) e far attecchire negli animi della popolazione un primo, fragile seme di nazionalismo. Nulla unifica l’interno uno Stato-nazione come la competizione su larga scala all’esterno.
Questa è una mossa dettata anche dalla necessità di sviare l’attenzione pubblica dalla più grave crisi economica che abbia mai colpito il regno. Lo stesso meccanismo a cui si assistette in Occidente durante le guerre mondiali, quando enormi masse di uomini venivano mandate al macello sulla spinta di virtù come la fedeltà, la tenacia e il patriottismo. Ed è proprio il nazionalismo (assieme alla religione) a nascere dal thymòs, cioè il desiderio di essere riconosciuti superiori agli altri. Scrive Fukuyama: “Il nazionalista si preoccupa innanzi tutto non del guadagno economico, ma del riconoscimento e della dignità”.
Ma questa strategia potrebbe dimostrare tutta la sua fragilità. Sul lungo periodo, quand’anche riuscisse a reprime il terrorismo, Ryad si ritroverebbe comunque con un’economia in pieno caos e una mancanza di oppositori su cui scaricare le colpe del disordine e su cui accendere nuovamente i riflettori. A questo punto al regime non resterebbe altra scelta se non individuare un nuovo obbiettivo e ricominciare da capo, con conseguenze facilmente prevedibili…
In questo inedito scenario, per la prima volta la religione, che pure gioca un ruolo da protagonista in Arabia Saudita, sembrerebbe così svolgere un ruolo secondario. Questo perché forse i Saud hanno bisogno di parlare un linguaggio diverso, più globalizzato, più riconoscibile e quindi simile – negli scopi e negli strumenti – a quello usato dalle altre potenze mondiali.
Se in passato questa tensione era rivolta soprattutto verso la minoranza sciita e gli immigrati (in larga parte asiatici) che giungono a frotte a lavorare nei cantieri e nelle case dei ricchi sauditi, ora questa “valvola di sfogo” non basta più. Ed è qui che il nostro discorso torna a riagganciarsi alla citazione iniziale di Daniel Berrigen.

Non a caso, gli interventi militari diretti in Bahrein prima e in Yemen dopo, hanno trasposto la dialettica servo-padrone al livello superiore, quello internazionale. Qui il desiderio di riconoscimento universale conduce “logicamente anche all’imperialismo che nasce direttamente dal desiderio del padrone aristocratico di essere riconosciuto come superiore”.
Ma un eccessivo ricorso al nazionalismo potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. I cittadini infatti, potrebbero cominciare a pretendere di accedere a un bene molto più intangibile: l’essere riconosciuti dallo Stato di cui fanno parte.
Sempre di riconoscimento si parla, quando si tocca il tasto “lavoro”; un fattore quest’ultimo di cui non si sente molto la necessità in un paese abituato a coccolare e sovvenzionare i propri cittadini e che oggi, paradossalmente si ritrova alle prese con una disoccupazione – soprattutto giovanile – in forte aumento. Del resto è lo stesso Fukuyama a descrivere l’Arabia Saudita come un paese in cui le entrate generate dal petrolio hanno dato accesso alla modernità, senza che la sua società abbia “sperimentato quelle trasformazioni sociali che si verificano quando questa ricchezza viene prodotta dal lavoro della popolazione”.
E in un paese come questo, come sottolinea la frase di Scott Atran prima citata, cresciuto per decenni su una società poco dinamica e grazie a una economia molto produttiva, il venir meno di certezze e stabilità equivale alla fine del consenso interno. Anche perché in passato, con un’economia galoppante, tutte le energie erano rivolte e assorbite dal processo produttivo capitalistico, risultandone smorzati gli impulsi di altro tipo (sia le rivendicazioni sociali interne, sia le manifestazione di imperialismo/nazionalismo verso l’esterno).
UOMINI SENZA IDEALI
L’Arabia Saudita in parte si discosta e in parte si riconosce in quella figura che Nietzsche identificava nel cittadino tipico delle democrazie liberali (cioè “l’ultimo uomo”). Costui da tempo aveva mutato la lotta per l’affermazione della propria supremazia nella più comoda auto-conservazione, subordinando il desiderio di riconoscimento all’ottenimento di beni materiali. Il regno wahhabita non può certo essere portato ad esempio di società egualitaria ma, in parte per lo sviluppo economico caratteristico, parte per mero calcolo politico, ha da tempo prodotto sudditi che Fukuyama – riferendosi in realtà alle liberaldemocrazie di stampo occidentale – definisce “uomini senza orgoglio”, composti cioè “unicamente di desiderio e di ragione, ma privi di thymòs, abilissimi nello scoprire nuovi modi per soddisfare una serie di futili bisogni nella prospettiva di una lunga e comoda vita”.
Ovviamente sarebbe ingeneroso e falso estendere una simile definizione a tutti i cittadini sauditi e da tempo sono sempre di più le voci critiche che si sollevano contro l’assolutismo che opprime il paese. Inutile dirlo ma la risposta del governo è come sempre radicale. Questo e le difficoltà economiche che rendono più complicato cooptare le fasce alte della popolazione, costringono il regime a fare affidamento sempre più spesso sulla coercizione e le prove di forza. Il rischio, per dirla con Fukuyama, è che lo stato perda “il controllo del sistema delle credenze”.
Forse anche in questo sta il motivo per cui tanti giovani cittadini sauditi (come questa infografica mostra molto bene) si arruolano nelle fila di organizzazioni terroristiche in cerca di ideali da affermare e di soddisfacimento per i propri desideri di gloria. Non si può infatti sperare di sopperire alla totale mancanza di stimoli ideali solo grazie alla quantità di beni materiali che il sistema spinge a possedere. Ecco così che la causa di Al Baghdadi e del suo califfato diventano un modo per dare un senso alla propria vita, per ancorarla a una causa e invitare all’azione.
A tal proposito sembra quasi profetica la domanda che si pone l’autore: “la paura di diventare «ultimi uomini» spregevoli non potrebbe condurre gli esseri umani ad affermarsi in modi nuovi ed inaspettati ed a giungere addirittura al punto di diventare ancora una volta i feroci «primi uomini» impegnati in lotte sanguinose per il prestigio, questa volta con armi moderne?”.
Dal quadro disegnato da questa situazione non paiono esserci molti barlumi di speranza.
Una possibile ancora di salvezza paradossalmente potrebbe giungere proprio dalla guerra. L’Arabia Saudita nella sua storia non ha mai dovuto affrontare un conflitto in senso classico. Oggi che quest’eventualità pare bussare con vigore alle porte del paese bisogna ricordare che una simile minaccia solitamente costringe qualsiasi Stato a profonde ristrutturazioni del proprio sistema sociale per ottimizzare la produttività e lo sviluppo tecnologico. In una sola parola bisognerà investire nell’istruzione pubblica ed estendere il diritto di voto, due elementi che possono aumentare la consapevolezza diffusa della popolazione e spingerla a maggiori rivendicazioni (e a questo punto si inserisce la richiesta di riconoscimento descritta sopra), soprattutto come contropartita di una mobilitazione totale richiesta dal regime.
Come corollario di quanto visto sopra ci sarebbe il primo formarsi di una società civile. Infatti i grandi sommovimenti (o per un’invasione esterna, o per un colpo di stato ordito dall’inner circle del regime o da gruppi terroristici) non possono avere molto successo se non sono appoggiati dalla maggioranza della popolazione e dalla società civile che la rappresenta. E proprio quest’ultimo elemento sembra mancare nelle dinamiche sociali dell’Arabia Saudita: il clero religioso, i sindacati, i partiti, i raggruppamenti dei vari portatori di interesse… l’assenza di questi grandi poli di attrazione e di mobilitazione popolare non può che vanificare qualsiasi spinta verso il cambiamento. La loro presenza – che richiede molto tempo e che prevede numerose battute d’arresto – invece renderebbe la gente meno atomizzata e dipendente dall’autorità centrale.
Marco Colombo
Un pensiero su “Arabia Saudita: in lotta per il riconoscimento”